di Davide Gionco
Da tempo assistiamo al dilemma impossibile dell’attuale governo Conte: da una parte abbiamo i partiti di maggioranza, Movimento 5 Stelle e Lega, che cercano i fondi per attuare il loro programma di governo votato dal popolo italiano, giusto o sbagliato che sia (semplificando: reddito di cittadinanza, flat tax); dall’altra parte abbiamo la Commissione Europea, con Junkers, Dombrovskis e Moscovici (non votati dal popolo italiano né europeo), che chiedono all’Italia ulteriori tagli di spesa, in quanto ritengono che l’obiettivo primario dell’Italia sia avere “i conti in ordine”.
L’attuale governo, peraltro, non fa eccezione rispetto a quelli precedenti, i quali sistematicamente si sono cimentati con tagli agli investimenti pubblici (o aumenti di tasse), con la sola differenza che i precedenti governi Gentiloni, Renzi, Letta, Monti hanno “spontaneamente” tenuto i “conti in ordine”, senza andare allo scontro con la Commissione Europea.
L’ideologia politica dei “conti in ordine”, di provenienza tedesca, ritiene che uno stato sia come una famiglia e, in quanto tale, non dovrebbe spendere più di quanto incassa tramite le tasse.
Ora, guardiamo al bilancio dello stato italiano, facendo 2 conti semplificati, sulla base dei dati disponibili sul sito internet del Ministero dell’Economia e delle Finanze. Non ci interessa fornire dei dati precisi di contabilità, ma dare la comprensione del fenomeno. Per questo semplifichiamo.
Nel 2017 lo stato italiano ha avuto 568 miliardi di entrate, per lo più tramite il pagamento delle tasse da parte dei contribuenti.
Nello stesso anno lo stato ha avuto 3 voci di uscita: 486 miliardi di spese correnti, 41 miliardi di investimenti pubblici e 79 miliardi di interessi pagati sul debito pubblico, per un totale di 606 miliardi.
La differenza fra entrate e uscite è pari a 606 – 586 = 20 miliardi.
L’unico modo che lo Stato ha oggi di finanziare questo ammanco di 20 miliardi è di “chiedere un prestito” ai mercati, emettendo dei nuovi titoli di stato. Ma in questo modo il debito aumenta ulteriormente, per cui i “tecnici” della Commissione Europea chiedono all’Italia di ridurre la spesa. Non solo di 20 miliardi, per arrivare al pareggio di bilancio, ma di più, per ridurre il debito, in modo che, in futuro, ci siano meno interessi da pagare, essendosi ridotto l’ammontare complessivo del debito e in modo che, nel lungo termine, via siano più margini per aumentare la spesa pubblica per le necessità del paese. Nel “lungo termine”. Quando? Sono 25 anni che l’Italia porta avanti questo tipo di politiche economiche. 25 anni è un termine abbastanza lungo per giudicarne i risultati?
Questa è la storia che ci raccontano. Il ragionamento sembra corretto, da “buon padre di famiglia”.
Ma proviamo ora a cambiare prospettiva, facendo il bilancio non dal punto di vista del governo (dello Stato), ma dal punto di vista del popolo italiano. Rivediamo quindi in tal senso i dati di bilancio del 2017.
Popolo italiano: uscite = 568 miliardi, le tasse che abbiamo pagato; entrate 486 miliardi di spese correnti più 41 miliardi di investimenti pubblici, per un totale di 527 miliardi.
Spese correnti e investimenti pubblici sono denaro che lo Stato spende o per pagare gli stipendi dei dipendenti pubblici o per remunerare i fornitori esterni (appalti).
In entrambi i casi si tratta di denaro che ritorna in circolo nell’economia reale. Anche chi non lavora per lo Stato, infatti, beneficia di questo “ritorno”, in quanto chi percepisce i pagamenti pubblici ha a sua volta la possibilità di diventare “cliente” di altre imprese del settore privato.
Tramite la spesa pubblica il denaro sottratto mediante il pagamento delle tasse ritorna in circolo e fa girare l’economia del paese.
Se facciamo il bilancio netto dal punto di vista del popolo italiano abbiamo, quindi, 586 miliardi di uscite e 527 miliardi di entrate, per un passivo di 586 – 527 = 59 miliardi in meno rispetto all’anno precedente. Questo significa che chi ha governato l’Italia nel 2017, come i vari governi che hanno guidato l’Italia nei 25 anni precedenti, ha sottratto al netto denaro al popolo italiano senza restituirlo.
E i soldi mancanti dove sono finiti? Ovviamente sono quelli del pagamento degli interessi sul debito. Si tratta di rendite che vanno a beneficio in larghissima parte di grandi società di investimento finanziario, spesso internazionali, le quali distribuiscono le rendite ai loro azionisti ed ai loro clienti che hanno investito in prodotti finanziari, fra i quali anche i nostri titoli di stato. Si tratta, in sostanza, di denaro che noi contribuenti abbiamo pagato e che viene trasferito verso persone più ricche che lucrano dagli investimenti finanziari.
E’ uno dei meccanismi fondamentali che arricchiscono il famoso 1% del mondo (come spiega l’economista Piketty), impoverendo il restante 99%.
Il fatto che lo Stato realizzi un attivo di saldo primario (termine tecnico) di 59 miliardi, al netto degli interessi, significa che i dipendenti pubblici e le imprese fornitrici dello Stato hanno ricevuto 59 miliardi di euro in meno rispetto all’anno precedente. E questo significa che i percettori dei pagamenti pubblici avranno meno denaro da spendere nel settore privato dell’economia, per cui tutta l’economia del paese, alla fine, subirà una contrazione delle vendite.
Contrazione delle vendite nel settore privato significa licenziamenti, significa una diminuzione del prodotto interno lordo (PIL) e, quindi, una diminuzione delle entrate fiscali per l’anno successivo. Di conseguenza l’anno successivo lo stato si troverà con ancora meno denaro da spendere e dovrà comunque indebitarsi per far quadrare i conti.
Ma la Commissione Europea chiederà, una volta di più, di non aumentare il debito, obbligando quindi il governo o a tagliare ulteriormente la spesa oppure ad aumentare ulteriormente le entrate fiscali, nonostante la contrazione dell’economia. Ed un aumento dell’imposizione fiscale con una economia in recessione significa portare al fallimento altre imprese, aumentare la disoccupazione, vedere diminuire ulteriormente il PIL, quindi le entrate fiscali, e così via…
E’ del tutto evidente che si tratta di una strada senza vie di uscita.
La coperta è ogni anno più corta!
Da un lato abbiamo un Governo, un Parlamento, che vorrebbero sinceramente (naturalmente a mono loro, democraticamente determinato) fare fronte ai problemi del paese: fare investimenti per creare nuovi posti di lavoro (abbiamo milioni di disoccupati), fare investimenti per preservare l’ambiente (l’effetto serra che continua ad aumentare), fare investimenti per ridurre la povertà (abbiamo milioni di poveri), investire in favore delle famiglie, per l’aumento della natalità, per la sicurezza idrogeologica del paese, ecc.
Potremmo andare ad elezioni e vedere vittoriosi altri partiti, i quali assumeranno altre priorità.
Ma quali che siano le priorità, anche il nuovo governo si troverà con la coperta più corta rispetto all’anno precedente. E non potrà quindi fare fronte alle urgenze ed a molte delle più che legittime richieste che arrivano dal Paese. Si troverà obbligato a scegliere chi lasciare sotto la coperta e chi mettere fuori dalla coperta. Ogni anno qualcuno di più.
Per questo motivo ogni giorno su tv e giornali assistiamo a continue e legittime richieste di Confindustria di venire incontro alle esigenze delle imprese o della Coldiretti per venire incontro alle esigenze degli agricoltori. Altre categorie non hanno la fortuna di essere rappresentate ad altro livello, ma sono noti i bisogni di maggiori investimenti pubblici per i disabili, per le famiglie, per la sanità, per i poveri, per i disoccupati…
La realtà è che il meccanismo della “coperta corta” mette tutti questi soggetti in competizione fra loro. Chi ha la forza di tirare di più la coperta, potrà restare al caldo almeno fino al prossimo anno, mentre gli altri, più deboli, resteranno al freddo.
La dottrina politica della “coperta corta”, tecnicamente chiamata “politiche di austerità” ci viene direttamente dall’Unione Europea ed è molto difficile sottrarsi ad essa.
Nel Trattato di Lisbona si dice chiaramente che l’Unione Europea promuove la “competitività” al suo interno.
Competitività significa proprio questo: chi è più competitivo tira la coperta dalla propria parte e gli altri devono diventare più “competitivi” se vogliono riprendersi la coperta, per non morire di freddo.
In realtà l’ideologia economica imperante prevede una soluzione per evitare che il settore privato dell’economia debba ogni anno vedersi impoverito dalle politiche di rigore nella spesa pubblica.
L’ideologia insegna che il pubblico è inefficiente, ma che il settore privato dell’economia, più efficiente, ha la possibilità di esportare beni e servizi all’estero, guadagnando miliardi di euro aggiuntivi, in modo da compensare gli esborsi causati dalle politiche della coperta corta.
Ovvero: lo Stato taglia i servizi pubblici, ma il settore privato, grazie alla sua cresciuta competitività sui mercati internazionali, potrà pagarsi privatamente (e più efficientemente) gli stessi servizi grazie agli utili delle esportazioni.
Il “bilancio a 3 voci” che tiene conto del ruolo dello Stato, del ruolo dei cittadini-contribuenti e del settore estero, oggetto delle nostre esportazioni, viene tecnicamente chiamato “saldi settoriali”.
Non si tratta di una teoria economica, ma di una rappresentazione schematica dei flussi di cassa fra i settori dell’economia di un paese.
A tale scopo riportiamo questo schema elaborato dal centro studi dell’associazione MeMMT.info
Il settore “Non G” (non governativo) siamo noi cittadini, che guadagniamo lavorando e paghiamo le tasse allo Stato.
Il settore “Gov” (governativo) è lo Stato, che incassa le tasse e spende verso il settore non governativo italiano.
Il mondo è l’estero, verso il quale esportiamo beni e servizi, ma anche da cui anche facciamo importazioni.
Se ritorniamo al bilancio del 2017, la sottrazione di 59 miliardi di euro dalle tasche dei cittadini italiani avrebbe potuto essere compensata da un attivo commerciale dell’Italia verso l’estero.
E questo effettivamente in parte è avvenuto. Nel 2017 l’Italia ha avuto un surplus commerciale verso l’estero di circa 50 miliardi. Questo fatto ha quindi consentito di ridurre il deficit del settore non governativo (del popolo italiano) da 59 miliardi a soli 9 miliardi.
Si potrebbe pensare che basterebbe impegnarci un po’ di più per andare in pareggio e per non dovere più accorciare la coperta.
In realtà il problema è che se l’Italia è brava ad esportare più di quanto importa, come da anni fa anche la Germania, e meglio dell’Italia, altri paesi dovranno necessariamente subire un deficit commerciale. Il nostro attivo è inevitabilmente il loro passivo.
La bilancia commerciale mondiale, ovviamente, è per definizione in pareggio, in quanto tanto si esporta e tanto si importa, complessivamente.
Ma nel dettaglio ci sono paesi con attivo commerciale, come Italia, Germania o Cina, ed altri paesi con deficit commerciale, i quali, oltre ad applicare la dottrina politica della coperta corta, dovranno anche fare fronte a perdite di capitali verso l’estero (e verso l’Italia).
Il risultato per loro sarà, quindi, aumenti di tasse e tagli di servizi pubblici, con l’obiettivo di realizzare un attivo commerciale verso l’estero (e verso l’Italia) tale da non dovere più accorciare la loro coperta.
Mentre i paesi “virtuosi”, che esportano, dovranno stare molto attenti a contenere i costi di produzione, per non perdere competitività sui mercati internazionali. Da qui l’esigenza di ridurre i costi legati ai diritti sociali e di ridurre i costi per il rispetto dell’ambiente. E’ noto come la principale fonte energetica di Germania e Cina sia il carbone.
La sostanza è inevitabile mors tua, vita mea: la dottrina politica della coperta corta impone di scaricare su altri paesi l’obbligo di accorciare la loro coperta, per accorciare un po’ di meno la nostra.
E tutto questo unicamente per garantire le rendite degli investitori finanziari, quelli che nel 2017 hanno percepito dagli italiani ben 79 miliardi di interessi.
Il problema centrale sono gli interessi.
Nello schema sopra rappresentato si dice che il settore governativo “Gov” è l’unico che ha la possibilità di creare ricchezza finanziaria netta.
Lo Stato ha questa possibilità, in quanto il denaro è una creazione giuridica e in quanto lo Stato è la fonte del diritto.
Perché mai lo Stato deve essere obbligato a chiedere denaro in prestito, ad interesse, quando potrebbe, per legge, decidere di stamparsi da solo il denaro che gli occorre, senza indebitarsi?
La dottrina della coperta corta è un modello politico-economico evidentemente insostenibile.
E si tratta di un modello che, a detta dei suoi detrattori (dalla Merkel in giù, fino a vari Monti e Cottarelli nostrani), dovrebbe portare benefici “nel lungo termine”.
Ma, come diceva giustamente Keynes, “nel lungo termine saremo tutti morti” ed è quanto sta accadendo continuando a portare avanti da 25 anni le politiche di austerità, che hanno portato all’Italia povertà, disoccupazione, crisi delle famiglie, deperimento delle infrastrutture pubbliche, ecc.
Se ce lo spiegassero in televisione, lo avremmo già capito tutti da tempo.
Invece, purtroppo, in televisione ci raccontano la storia solo da un punto di vista.
Quello sbagliato.
Quello che porta vantaggi agli investitori finanziari.
Il venerabile Giorgio La Pira scriveva che un governo, quando fa il bilancio, deve prima stilare la lista dei bisogni primari del paese, valutandone il costo.
Una volta stabilita la cifra il governo deve ingegnarsi a trovare il modo per finanziare quella spesa necessaria al paese.
Se chi governa è cosciente del fatto che il denaro non è altro che di pezzi di carta o numeri sui computer, i quali possono diventare mezzi di pagamento per via giuridica, allora il problema di come finanziare la spesa pubblica diventa di facile soluzione.
Le soluzioni tecniche esistono e sono note.
Alcuni propongono di considerare il deficit pubblico e il debito per quello che è: non un reale debito da pagare, ma solo uno strumento contabile per generare del nuovo denaro che la banca centrale (oggi la BCE) stampa a fronte dell’emissione di nuovi titoli di debito. Ovvero: il deficit e il debito sono solo dei numeri, quello che conta è mettere in circolazione nuovo denaro, per far funzionare l’economia reale del paese.
Altri propongono di modificare le modalità giuridiche di messa in circolazione del denaro. Nulla vieta, infatti, che lo Stato di stampi da solo il denaro necessario, per poi metterlo in circolazione tramite la spesa.
Sappiamo che, a questo punto, alcuni che si ritengono esperti di economia evocheranno lo spettro dell’inflazione. Rispondiamo fin da subito che l’inflazione non si genera automaticamente a seguito di un aumento della spesa pubblica. Avremo modo di discuterne in uno dei prossimi articoli.
L’attuale governo, per rilanciare l’economia del paese, dovrebbe fare non il 2% di deficit, ma almeno l’8-9%, respingendo unilateralmente i diktat della Commissione Europea. Oppure, in alternativa, potrebbe emettere, come scritto sopra, una propria moneta parallela ad uso nazionale, per finanziare la spesa pubblica necessaria al paese.
Purtroppo chi ci governa probabilmente non ha nemmeno idea di quanto scriveva Giorgio La Pira e mette le esigenze di bilancio prima delle esigenze del popolo italiano. Per questo perdono tempo a discutere dello 0,04% di deficit di più o in meno, senza avere compreso che la questione centrale è sottrarsi al meccanismo della coperta corta, non è negoziare lo zero virgola con la Commissione Europea.
L’Italia potrà salvarsi solo quando sarà governata da una forza politica che avrà compreso che il denaro è uno strumento giuridico, che deve essere messo al servizio dei bisogni del paese.
Naturalmente il discorso vale anche per l’Europa, la quale, sottomessa alle politiche di austerità e di competitività sta autoimplodendo in una crisi profonda che genera solo divisioni fra i popoli.
Esattamente il contrario di ciò che sognavano i padri fondatori: De Gasperi, Adenauer e Schumann.
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