di Chiara Zoccarato
E’ l’inizio dell’anno e le notizie non sono confortanti.
Da una parte assistiamo alla trasformazione della manovra economica del popolo nell’ennesimo inchino ai diktat della governance europea e a misure economiche che, il governo assicura, porteranno alla “crescita economica” per far fronte alla crisi e alla disoccupazione rampante, ma sembrano orientate a facilitare l’impresa e il mercato, tra cui anche il reddito di cittadinanza, dall’altra arriva la notizia che l’India, paese con tassi di crescita molto elevati, non riesce comunque a risolvere la disoccupazione in aumento, il tutto condito da una gustosa dichiarazione di Krugman che il Socialismo non avrebbe sbagliato proprio tutto e che lo Stato dovrebbe avere un ruolo maggiore nell’economia.
E’ ancora di qualche anno fa lo studio dell’economista Pavlina Tcherneva intitolato “Quando la marea in salita affonda la maggior parte delle barche” (in evidente polemica con la narrativa della Trickle-down economy) che dimostrava proprio come la crescita economica stesse aumentando la disuguaglianza a favore del 10% della popolazione a causa di una politica fiscale disfunzionale.
Il grafico è inequivocabile, oltre che impressionante:
E si riferisce agli Stati Uniti d’America, una potenza economica mondiale. Eppure lo stesso fenomeno si verifica un po’ ovunque.
Ed è quello che un articolo del Washington Post del 4 gennaio ci racconta. Ad un concorso per 63’000 posti nelle ferrovie Indiane si sono presentati in 19 MILIONI, per lo più giovani formati, quindi qualificati per l’ingresso nel mondo del lavoro, provenienti da aree rurali o disagiate. Cosa ci insegna l’India? Che un tasso di crescita anche elevato, com’è quello Indiano, non cancella la disoccupazione, che resta una piaga aperta nel subcontinente, e che la formazione non assicura un impiego. Il problema non è dal lato dell’offerta, è dal lato della domanda!
Senza adeguati interventi di creazione di posti di lavoro in modo diretto da parte del governo nelle zone rurali e dove è più alta la concentrazione di popolazione, la disoccupazione non può che salire. E L’India è un paese che utilizza piani di lavoro di ultima istanza, ma è evidente che non sono sufficienti e vanno potenziati, come sicuramente va potenziato il settore pubblico, che deve crescere in modo proporzionale al settore privato e all’aumento demografico. Un compito sicuramente arduo, ma non basta nascondere le statistiche, come fa l’attuale governo Indiano, per sfuggire alla realtà.
Il mercato, da solo, non porta ad alcun magico equilibrio. Piuttosto tende a massimizzare i profitti e ad aumentare la disuguaglianza. Serve un intervento dello Stato nell’economia.
Ma quanto spazio dovrebbe dunque occupare nell’economia e in che misura dovrebbe spendere, vista l’ossessione per il controllo dei bilanci pubblici?
E qui arriviamo all’articolo di Krugman “Economia mista per migliorare il Capitalismo”, che ha suscitato facili entusiasmi nella sinistra. Krugman è abile e sa che l’uso di certe frasi fa cadere in trappola gli ingenui, e difatti basta dire che “forse il Socialismo non ha fallito proprio del tutto”, che si fanno passare per nuovi e socialisti concetti che non lo sono e anzi, sono già stati superati dalla letteratura economica che lui dovrebbe conoscere.
L’economia “mista” è già in voga da parecchio tempo, nella forma di socialismo per i ricchi e di dura legge del mercato per le classi subalterne. La forma mista che va a proporre è di permettere al settore pubblico di arrivare ad essere un terzo dell’economia. Addirittura! E questo sarebbe innovativo? Quasi socialista? Lasciare i due terzi al settore privato non è affidare comunque al mercato la guida dell’economia, con tutte le disfunzionalità che questo comporta?
A tal proposito andrebbe ricordato ciò che scrivevano gli economisti Harold Vatter e John Walker nel 1997: in una politica fiscale ben condotta, la spesa dello Stato deve salire rapidamente quando gli investimenti salgono in modo tale da assorbire l’aumento di capacità produttiva, e ancora di più quando gli investimenti scendono in modo da impedire il collasso della domanda effettiva. La definiscono quindi come una “chiave a cricchetto” piuttosto che un mero intervento anticiclico, troppo riduttivo del ruolo che deve avere costantemente nell’economia, fino ad arrivare ad affermare che la partecipazione dello Stato nell’economia dovrebbe aumentare indefinitivamente“.
Adolf Wagner, la cui famosa legge viene citata dai due economisti, aveva argomentato che lo sviluppo economico porta ad industrializzazione e urbanizzazione e questo genera un aumento assoluto, oltre che relativo, della domanda di servizi aggiuntivi da parte dello Stato. Quindi, per ragioni sia politiche che economico-sociali, il settore pubblico dovrebbe crescere più velocemente del tasso di crescita economico. E se non lo fa, non solo lascia la società priva di servizi essenziali, ma genererà anche stagnazione a causa del problema di Domar, perché la crescita della domanda è più lenta dell’aumento di capacità produttiva. L’India conferma.
Dunque la parte affidata al settore pubblico deve essere maggiore, non un terzo!
Se vogliamo dare un parametro di riferimento, è il tasso di disoccupazione. Come diceva anche Keynes “Bada alla disoccupazione e il bilancio baderà a se stesso”, quindi nulla di rivoluzionario, socialista o innovativo, ma certamente tuttora non molto ben compreso.
Combattere disoccupazione e inattività involontarie sono il fondamento di una politica fiscale funzionale, la piena occupazione garantita è uno strumento di stabilizzazione macroeconomica indispensabile in una economia aperta, quale è quella in cui viviamo oggi.
Le chiacchiere che sentiamo tutti i giorni sulla necessità di “misure per la crescita” quale metodo infallibile per assorbire la disoccupazione si schiantano sul muro dei fatti.
La disoccupazione si risolve solo con un intervento mirato, locale e diretto da parte dello Stato. Se si vuole risolvere. Altrimenti basta dirlo: le misure di intervento sono funzionali al mercato, quando il mercato riparte e il PIL s’ingrossa, chi c’è, c’è, chi non c’è, si arrangi.
Risparmiateci la retorica su fantomatiche battaglie contro la povertà, che è populismo vecchio stile, solo riverniciato per l’occasione.
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