di Federico Butera
Vi sono tre periodi ben distinti della storia Olivetti.
La prima è la fase dei fondatori, in cui Camillo e Adriano illuminano la scena della costruzione di una delle aziende più moderne del paese con la loro fortissima personalità: in questa fase, la storia più visibile e sorprendente è più quella dell’ing. Camillo e dell’ing. Adriano come imprenditori illuminati piuttosto che quella dell’azienda. È ciò che succede tutt’oggi con Ferrero, con Del Vecchio, con Bombassei, con Alessandri: il leader fa tanta luce da far impallidire la struttura dell’impresa.
La seconda fase, che io ho avuto la fortuna di vivere direttamente, è quella che va dalla scomparsa di Adriano al 1972. Lì credo vada cercato il pattern dell’azienda Olivetti, distinta dai suoi leader e fondatori, lì va cercato un modello da riproporre non ad irripetibili Adriano Olivetti, ma a ripetibili validi imprenditori, dirigenti, professional di cui è largamente popolata l’economia italiana. Agli inizi degli anni ’70 avvenne la presa del controllo di Ottorino Beltrami, che introdusse in Olivetti una cultura che assomigliava più a quella della General Electric che quella della Olivetti, ma non ne poté cambiare il DNA. La precarietà finanziaria che aveva portato la Fiat e Mediobanca ad assumere il controllo della Olivetti, non aveva modificato in quel decennio la struttura e la cultura della azienda di Adriano Olivetti.
La terza fase parte dalla “normalizzazione” della Olivetti sul modello di una ordinata multinazionale creata da Beltrami e Bellisario fino alla presa del controllo da parte di Carlo De Benedetti. In questa fase gli asset tecnici, economici, manageriali vengono montati e smontati come un lego, con momenti di successo e con un finale insuccesso.
Queste tre fasi, tuttavia, conservano un DNA comune, ma non si prestano alla rappresentazione di un modello univoco di management: ciò darebbe ragione alle risposte di giovani e anziani dirigenti. Io credo fermamente che ci sia stato un modello Olivetti che rappresenta una eredità fondamentale per una emergente generazione di imprese made in Italy protese in operazioni aperte alla competizione internazionale. Esso, assai visibile dal 1962 al 1972, era stato prima sovrastato dalla luce di un imprenditore straordinario fino alla morte di Adriano. In seguito, subì contaminazioni di ogni tipo dal 1972 in avanti, ma il DNA rimase e rimane visibile e fecondo.
Quale era questo modello? Esso, nel 1962, era visibile fisicamente sui due lati di via Jervis a Ivrea.
A sinistra di via Jervis vi era il massimo della razionalità organizzativa del tempo. Innanzitutto, c’erano gli stabilimenti di produzione, le officine e i montaggi, dove erano stati introdotti e perfezionati i più moderni metodi di fabbricazione e montaggio della produzione meccanica mondiale, con innovazioni importanti rispetto al taylorismo sperimentato nelle officine meccaniche internazionali (e anche a quelle delle officine Fiat a soli 40 chilometri di distanza). Poi, c’erano i laboratori di Ricerca e Sviluppo che studiavano prodotti geniali che avevano oltre il 50% di quota di mercato mondiale, come la Tetractys. E ancora, c’erano gli uffici tecnici dove venivano sviluppate le soluzioni più evolute di macchine utensili e stampi. Infine, c’erano gli uffici amministrativi, assai efficienti per quel tempo. Sulla sinistra ideale di via Jervis vi era poi una linea senza fine che legava fra loro consociate, filiali, concessionari distribuiti in tutto il mondo, con un cuore nascosto nella campagna toscana che batteva a Villa Natalia dove aveva sede la scuola commerciale.
A destra di via Jervis, vi era non una alternativa ma un complemento integrato a tanta razionalità produttiva: i servizi sociali, l’infermeria, la biblioteca, il centro di sociologia, il centro di psicologia e gli altri servizi che davano “anima” all’impresa.
I due marciapiedi di via Jervis davano luogo ad un unico modello di impresa. Forte responsabilità sui risultati; ruoli “a geometria variabile e centrati sui risultati; verifica continua della leadership; strutture mutevoli in base alle circostanze e alle opportunità; staff di alta qualità; ridondanza intellettuale; presenza dei dirigenti più alti sul luogo di produzione (il “gemba”, come più avanti diranno i giapponesi); ossessione per la qualità; sistemi di regolazione sociale raffinati (si pensi alla presenza di un ufficio del personale che prendeva in carico tutti i casi di disagio da qualunque fattore prodotto); relazioni interne efficaci e rispettose; comunità professionali cosmopolite, comunità di pratica, networking e tanto altro.
Soprattutto si osservava una grande cura delle persone: reclutate per le loro potenzialità, avviate su percorsi in cui le grandi opportunità offerte dall’azienda si intrecciavano con l’incoraggiamento a sviluppare il proprio “workplace within”, ossia quel mondo interno di esperienza, cultura e intelligenza patrimonio delle persone. Era ben altro che un sistema di gestione del personale quale quelli ingegnerizzati che le società di consulenza importano dagli Stati Uniti nelle imprese italiane: era un modello di gestione basato sulla valorizzazione della risorsa più preziosa, la persona vera.
L’attrattività di Ivrea per i giovani era altissima. La città, per chi veniva da Roma, Napoli o Milano, era veramente poverissima, a parte la gastronomia e la campagna. Tuttavia, abbondavano le 3 T di Florida: talento (Olivetti assumeva 1 persona su 100 scrutinate e sulla base della loro creatività e curiosità, non su ristrette competenze tecniche); tecnologia (da Cappellaro a Chiu, dalla Tetractys all’Elea era un ribollire di tecnologie di tutti i tipi); tolleranza (al momento dell’assunzione non si chiedeva per quale partito si votava, ma si scartavano solo le personalità autoritarie, senza verificare le etichette; alle serate culturali si incontravano Moravia, Pasolini e altri “scandalosi” intellettuali del tempo).
Era una impresa con una struttura organizzativa potente e severa, ma anche con un’anima condivisa, data dai valori dell’impresa, dalla responsabilità sociale, da un network vivissimo. Qui va cercato il modello, che ha fatto grande anche Toyota e Brembo, Google e Ferrero.
Era soprattutto una impresa con una straordinaria capacità di imparare, di cambiare, di innovare. Quando i giapponesi cominciarono a produrre le calcolatrici elettroniche a 1/100 del costo delle calcolatrici meccaniche che avevano fatto la fortuna dell’Olivetti, quest’ultima fu capace di ripensare radicalmente la sua Ricerca e Sviluppo, la sua produzione, la sua struttura commerciale in soli tre anni, in uno dei più leggendari processi di change management dell’industria italiana, a cui ebbi la fortuna di partecipare come responsabile del Centro di Studi Organizzativi, l’Internal Consulting che la Olivetti aveva costituito in “tempo di pace”. Altre aziende fallirono. La Olivetti si rilanciò nella elettronica individuale. Forse avrebbe potuto diventare la Dell: ma questa è una storia che racconterò un’altra volta.
L’“impresa integrale”
Allora, come potremmo rappresentare il “modello Olivetti”
Io lo chiamo il modello dell’“impresa integrale” o dell’impresa eccellente socialmente capace (Butera, 2004). Essa è una impresa che persegue in modo integrato elevate performance economiche e sociali e che agisce concretamente per proteggere e sviluppare l’integrità degli stakeholder e dell’ambiente fisico, economico e sociale.
Questo concetto consente di andare oltre l’idea della impresa responsabile, di quella basata sulla “responsabilità sociale dell’impresa”, che è stato tacciato da molti come un concetto affetto da connotazioni moralistiche e idealistiche che induce a ritenere l’impresa un soggetto dotato di “sentimenti” e “obblighi morali”.
Il profilo dell’impresa di cui parliamo non è nemmeno quello (assai studiato) dell’“impresa illuminata”. Parliamo invece di una impresa “normale” che può possedere o meno aggettivi qualificativi ma che semplicemente sviluppa in modo eccellente e congiunto valore economico e sociale attraverso una strategia e azioni concrete. Essa si consegue non adottando un modello, ma attraverso un processo per definire valori, strategie, per “render conto”, per realizzare le proprie intenzioni. E soprattutto per realizzare risultati e mettere in pratica quei valori, ogni giorno e per tutti.
Ciò che fonda questa idea di impresa è il legame di reciprocità fra successo economico e successo sociale di un soggetto collettivo dotato di struttura sua propria e di modi di azione e non solo come un mezzo per raggiungere i fini dei suoi proprietari.
L’impresa integrale è il risultato di quell’efficace duplice legame di reciprocità fra impresa e società. Essa è un’istituzione economica che non solo importa dal contesto socio-economico valori, norme e regole sociali, ma che vi esporta anche valori, conoscenze, cooperazione. Questa reciprocità avviene attraverso prodotti, servizi, progetti, ma soprattutto attraverso le persone “vere”, cresciute e socializzate nella e con l’impresa: manager, professional, tecnici, artigiani, semplici lavoratori, e anche clienti e fornitori cittadini di una società della conoscenza.
Ciò che determina l’essere un’impresa integrale non sono solo le qualità morali individuali o le caratteristiche valoriali e carismatiche dell’imprenditore e del gruppo dirigente (sempre fondamentali), ma le reali pratiche operative e di management dell’impresa che coniugano le prestazioni economiche con quelle sociali. Un leader senza un corpo sociale con cui realizzare le cose non costruisce una “impresa integrale”, una impresa “built to last”, ossia costruita per durare (secondo l’espressione di Colin e Porras), ma al massimo una avventura imprenditoriale.
L’impresa integrale ha alcune caratteristiche chiave. Essa:
- Fonda la sua identità nello sviluppo, produzione e commercializzazione di beni o servizi utili per i clienti e le comunità. Esclusi i casi di prodotti ostensibilmente dannosi come la droga o le sigarette, o i servizi basati sulla debolezza del cliente come l’usura e il “pizzo”, in ogni società esiste una discussione su cosa è utile, superfluo o dannoso. La definizione di prodotti “socialmente apprezzabili” è naturalmente del tutto contingente ai valori, alla cultura, all’economia di ogni specifica società. Una società farmaceutica o una società di telecomunicazioni di solito non hanno bisogno di convincere nessuno che i loro prodotti sono utili anche se devono ancora convincere che perseguono scopi etici con mezzi etici. Una impresa di arredamento come IKEA si è impegnata con successo per affermare l’apprezzabilità sociale dei propri prodotti per fasce deboli della clientela e ha consentito a milioni di giovani coppie di arredare la propria casa con gusto e a basso prezzo. L’industria della moda italiana ha convinto tutto il mondo che l’effimero dei suoi prodotti contribuisce a costruire l’identità individuale e collettiva e l’estetica di una società e non è ostentazione di lusso. E così via.
- Altro elemento chiave dell’apprezzabilità sociale è costituito dal processo di concezione, realizzazione e consegna del prodotto e servizio: valori come l’intensità della ricerca, l’impiego di tecnologie avanzate, la qualità dell’organizzazione, l’impiego e la valorizzazione delle competenze. Essi rimandano alla utilizzazione e alla valorizzazione del “capitale sociale” e del “capitale intellettuale” dell’impresa.
- La sua missione primaria è quella di produrre benessere per tutti gli stakeholder. L’impresa integrale ovviamente genera ricchezza per sé e per i proprietari, ma attrae investimenti di investitori, fornitori e clienti, comunità locali e sistemi globali. L’impresa integrale fertilizza comunità, sistemi economici territoriali, Pubbliche Amministrazioni, altre imprese e accumula nel tempo un consistente “capitale sociale”. Tutto ciò rappresenta un fattore di vantaggio competitivo che costruisce imprese “fatte per durare”.
- Ha definito i propri valori dichiarando impegni e assumendosi spontaneamente responsabilità riguardanti l’ambiente, la comunità, la clientela, i membri dell’organizzazione e infine misurando la realizzazione di questi impegni. Non come una “aggiunta moralistica”, ma poiché ciò è in sintonia con le proprie strategie di affari, di organizzazione, di gestione del personale e dei rapporti esterni.
- Poiché tende ad essere fra le best in class nel suo settore o nel suo mercato, essa è capace di difendersi dalle diseconomie esterne e di attivare propositivamente economie esterne, rafforzando la propria competitività anche in ragione del miglioramento del contesto istituzionale e sociale. Ossia, interviene positivamente sul mondo esterno insieme alle istituzioni (pensiamo alla reazione al “pizzo” di imprese meridionali, in sintonia con le istituzioni).
- Una impresa integrale produce soprattutto persone, persone vere cresciute e socializzate nella e con l’impresa: manager, professional, tecnici, artigiani, semplici lavoratori, e anche clienti e fornitori. “Product of work is people”. La Olivetti, per esempio, è le persone che ha disseminato nell’economia italiana e internazionale.
- Il suo governance system, la sua organizzazione interna, la sua cultura di impresa, le relazioni stabili con le istituzioni e le organizzazioni del territorio sono trasparenti e corrette: le consentono di coniugare una capacità di generare elevati livelli di produttività, efficienza, redditività e innovazione e di assicurare alti livelli di eticità e sostenibilità ambientale e di qualità della vita dei clienti e dei lavoratori, insieme ad una forte capacità di fertilizzare economicamente e socialmente i territori in cui operano.
- Dispone di una vasta serie di indicatori economici e finanziari (redditività, ROI, ROE, etc.), di efficacia commerciale (customer satisfaction, etc.) e di efficacia sociale (bilancio di sostenibilità, inchieste nella comunità di riferimento, indagini di clima, analisi della qualità della vita di lavoro, etc.).
- Nell’impresa integrale operano soggetti che possono avere pregi e difetti, eroismi e storture di ogni genere, ma in tutti i casi svolgono funzioni economico-sociali di straordinaria importanza, soggetti a cui l’impresa dà visibilità e importanza: l’imprenditore che fa fare nuove cose o fa fare cose che si stanno già facendo in modo nuovo (innovazione); gli azionisti che apportano risorse economiche all’impresa invece di parcheggiarle nei Titoli di Stato; i dirigenti che portano ad unità elementi dispersi e promuovono il cambiamento; i professional che innovano o sostengono l’apprendimento degli altri; gli operai e gli impiegati che realizzano i processi fondamentali che creano prodotti e servizi e ricchezza; i clienti sono parte ineliminabile dell’impresa. E così via.
La tensione a proteggere e sviluppare sia l’integrità dell’impresa sia quella del patrimonio ambientale e sociale con cui l’impresa entra in contatto – affidando alla natura, al funzionamento, alle prassi di una impresa capace di integrare e fare interagire virtuosamente dimensioni economiche e dimensioni sociali – fu il segreto della Ing. C. Olivetti e C. durante la vita e dopo Adriano Olivetti.
Alcuni di questi tratti strutturali sono stati in gran parte la ragione del successo dei distretti industriali di piccole e medie imprese leader nel loro settore. Qui sosteniamo che si applicano ad una più vasta serie di realtà imprenditoriali. Sono tratti riproducibili in un grandissimo numero di imprese vere e normali, la stragrande maggioranza delle quali non ha imprenditori carismatici e socialmente impegnati, ma imprenditori che costruiscono e guidano imprese integrali.
Vi sono molte più imprese integrali in Italia di quanto si pensi. Una ricerca e la redazione di storie di impresa, fatte in modo non agiografico, in modo scientifico ma leggibile è uno dei grandi compiti delle scienze organizzative, dei media, della letteratura.
Le caratteristiche delle medie imprese eccellenti italiane che hanno proiezione internazionale sono esattamente quelle delle imprese integrali che abbiamo descritto.
I modelli di leadership e organizzazione che esse presentano non assomigliano ai modelli di burocrazia industriale e dei servizi che ha caratterizzato le grandi imprese internazionali che hanno dominato l’economia del XX secolo.
Occorre innanzitutto fare un intenso “lavoro clinico”, ossia di descrizione e interpretazione dei casi di successo. Questo sforzo, fatto da Chandler e Perrow per la grande impresa americana, non è stato fatto né per il caso Olivetti né per le medie e piccole imprese eccellente italiana che sono la parte vitale e portante dell’economia italiana. È ora il momento di considerare l’organizzazione e il lavoro una area organizzativa ricerca importante per la competitività del sistema paese quanto quella che riguarda le tecnologie e i prodotti.
Descrizione e interpretazione poi devono essere orientate all’intervento, ossia alla azione di gestione, progettazione, cambiamento, innovazione delle imprese e di sistemi di impresa. Pratiche e cultura di management e sistemi di servizi devono essere, come lo fu l’esperienza Olivetti e come lo è l’esperienza Toyota, centrate sulla visione, sulla anticipazione, sulla comprensione del contesto, sul proporzionamento dei fini alle risorse: insomma su un approccio centrato sulla visione e l’architettura dei sistemi complessi, sulla gestione dei processi di innovazione e cambiamento, sulla leadership e sulla partecipazione.
La chiave dello sviluppo delle imprese integrali rimane, come nel caso Olivetti centrato su due pilastri:
a) il rispetto e lo sviluppo della persona integrale a tutti livelli, a cui assegnare ruoli aperti ossia “copioni “da cui partire per sviluppare potenzialità, creatività e innovatività
b) l’attivazione di cooperazione, comunicazione, condivisione di conoscenze, comunità sostenuta dalle nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione
(Modello 4c, Butera 1999)
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