di Giovanni Lazzaretti
Quando nel febbraio 2011 iniziò la rivolta in Libia i TG mostravano le immagini di fosse comuni e annunciavano 10.000 morti e 50.000 feriti, colpiti da Gheddafi che bombardava la folla.
E io ci credevo.
Un giorno, però, una signora su Internet scrisse così: «Sentite, io non so cosa sta accadendo in Libia. Ma le immagini delle fosse comuni sono un normale cimitero a fosse singole, e risalgono a diversi mesi fa. Quando stasera ve le faranno rivedere, non credeteci».
Una frase perentoria, un postulato di partenza sul quale la logica può ricominciare a lavorare.
Dunque quelle immagini sono false: possibile che una vicenda da 10.000 morti e 50.000 feriti partorisca solo immagini false?
I casi sono due: o in Libia non ci sono reporter (e quindi non ci sono notizie, ma solo accettazione acritica di rilanci di agenzia) oppure ci sono i reporter ma non c’è l’avvenimento (e quindi devi inventare, per far vedere qualcosa).
10.000 morti e 50.000 feriti in un paese da 6 milioni di abitanti. In proporzione in Italia sarebbero 100.000 morti e 500.000 feriti, un’ecatombe peggiore dell’operazione Gomorrah su Amburgo. Possibile che un evento del genere lasci come unica traccia un video falso e qualche commento a distanza?
Va beh, adesso lo sappiamo: era una montatura costruita ad arte da Al Jazeera e dai media occidentali. Dalla falsa notizia si passa alla risoluzione ONU sulla “Zona di interdizione al volo”. Dalla “Zona di interdizione al volo” l’occidente e il Qatar si sentono autorizzati a bombardare la Libia.
La “primavera libica” era teatro, tragico teatro mediatico che preparava la guerra vera. Memorizziamo la prima tipologia teatrale: (1) descrizione mediatica di una guerra inesistente (2) indignazione mediatica per stragi inesistenti (3) i “buoni” (ONU e collegati) si attivano per “proteggere i civili” (4) inizia la guerra vera (5) caduto Gheddafi, puoi anche spiegare che era tutto falso; tanto ormai la cosa non interessa a nessuno.
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Con l’Afghanistan come andò? Anche lì fu teatro, ma teatro facile: dopo le Torri Gemelle dell’11 settembre 2001, gli USA potevano fare qualunque affermazione. Hanno affermato che le Torri le aveva buttate giù Osama Bin Laden e che i Talebani proteggevano Osama; e quindi l’Afghanistan andava attaccato e i Talebani abbattuti.
Il fatto che i Talebani abbiano sempre negato il loro coinvolgimento non aveva alcuna importanza; in quella circostanza gli USA avrebbero anche potuto dire che un Hitler clonato aveva abbattuto le Torri dal suo compound nell’isola di Bali. Chi si sarebbe mai alzato a dire «No, non è vero»?
Memorizziamo questa seconda tipologia teatrale: (1) c’è un evento di impatto planetario, le Torri Gemelle (2) gli USA sono colpiti al cuore e la loro parola è l’unica cosa che conta (3) gli USA dicono che l’Afghanistan va attaccato (4) il mondo accetta senza battere ciglio. 18 anni di guerra, e non è finita. Un po’ di logica ci dice che se le Torri sono dell’11 settembre e l’attacco all’Afghanistan è del 7 ottobre forse qualche cosa era già stata pianificata in anticipo.
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E con l’Iraq come andò? Andò come la favola di Fedro del lupo e dell’agnello: «Perché intorbidi l’acqua che devo bere?» «Come posso farlo? L’acqua scorre da te a me». Eccetera.
Saddam era l’agnello, ossia colui che, non avendo accesso ai media, parla senza che nessuno lo ascolti ed è la vittima designata. Gli USA erano il lupo, quel tipo di lupo che vuole attaccare, ma “secondo giustizia”. «Attacchiamo Saddam perché ha le (inesistenti) “armi di distruzione di massa”».
Memorizziamo la terza tipologia teatrale: (1) ossessiva accusa mediatica costruita sul nulla (2) creazione di una “coalizione internazionale” (3) azione d’attacco quando la misura è (mediaticamente) colma (4) alla fine basta dire uno «Scusateci, ci siamo sbagliati; le armi di distruzione di massa non ci sono»; tanto la faccenda non interessa più. Anno 2003, 16 anni di guerra.
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Poi ci sono le opere teatrali fatte da dilettanti, come la strage di Timisoara del Natale 1989; o la vicenda della bella Amina Abdallah “a Gay girl in Damascus”, giugno 2011, che era in realtà l’americano Tom McMaster installato a Edimburgo: queste due ve le andate a rivedere su Internet.
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E Carola Rackete in che tipologia teatrale si inserisce? Beh, è una quarta tipologia teatrale, diversa dalle precedenti. (1) Si prende una vicenda estremamente complessa (2) si piazza una colossale lente d’ingrandimento su un solo punto della vicenda (3) si propina al pubblico solo il particolare ingrandito (4) si oscurano mediaticamente il prima e il dopo, essenziali.
Non ha importanza se Carola è buona o no, se è in buona fede o no, se agisce da sola o a comando: è semplicemente la persona giusta (borghese, carina, ecologista, poliglotta, vegana) al posto giusto, sulla quale puntare la lente d’ingrandimento.
Supponiamo che il vero attore non sia la Rackete, ma la finanza internazionale inserita in un modello neoliberista. Questo attore è colpevole di larga parte della povertà del mondo; è colpevole di forme coloniali subdole e devastanti; è colpevole della distruzione di Afghanistan Iraq Libia Siria con le conseguenti valanghe di profughi; è colpevole dell’instabilità libica, punto di partenza per i gommoni; è colpevole della povertà e disoccupazione in Europa; è colpevole del traffico di migranti.
Ma il teatro mediatico piazza la sua enorme lente d’ingrandimento su Carola, e noi non vediamo più nulla: il migrante scappa da guerra fame miseria (Uffa. E’ vero per il 5%, falso per il 95%); il gommone, ahimè, affonda (il gommone non può che andare alla deriva, da Tripoli a Lampedusa); la nave salva i naufraghi (vero, ma il gommone parte solo se sa che c’è la nave); la capitana è l’eroina, Salvini è il mostro.
E’ una noia, ormai: noi occidentali siamo assuefatti a credere al teatro mediatico che ci crea le emozioni e ci fa sentire buoni se le assecondiamo. Un po’ di logica ti fa apparire freddo e cinico.
Ma la salvezza dell’Africa si costruisce sulla logica, non sulle emozioni.
Giovanni Lazzaretti
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