Poco dopo la metà del secolo XIX, una nave mercantile americana naufragò presso le coste del Giappone, paese che da secoli (1633, con l’editto sakoku di Iemitsu Tokugawa) aveva decretato il bando agli stranieri tranne per l’enclave dell’isola di Deshima a Nagasaki, riservata ai mercanti olandesi e cinesi.
Era prevista la pena di morte per ogni straniero che violasse il blocco e nonostante la causa di forza maggiore l’equipaggio della nave venne messo agli arresti dalle autorità locali, condannato a morte e giustiziato.
Le conseguenze pratiche di quest’atto furono praticamente immediate ma a distanza di secoli sono ancora ben lungi dall’essere pienamente concluse, né possiamo dire di conoscerle appieno, o di essere in grado perlomeno di valutarle in maniera definitiva
Durante il lungo e volontario isolamento iniziato agli albori del XVII secolo il Giappone aveva conosciuto un periodo di pace e prosperità che non aveva avuto l’eguale da molto tempo: il periodo della cosiddetta pax Tokugawa, meglio conosciuto in Giappone come periodo di Edo. Un’epoca veramente d’oro, in cui la cultura giapponese fiorì in ogni sua manifestazione, ma poggiata su basi estremamente fragili che si volevano preservare da ogni influenza esterna, limitando al massimo e infine addirittura proibendo ogni contatto con l’esterno.
Nel luglio del 1853 l’ammiraglio Matthew Perry gettava le ancore nella baia di Uraga, al comando di quattro navi da guerra della marina statunitense, chiedendo formalmente l’apertura dei porti del Giappone, la stesura di accordi per i soccorsi in caso di naufragio e la stipula di trattati commerciali.
Missioni analoghe non avevano ricevuto alcuna risposta nel 1804 (guidata dall’ambasciatore russo Rezanov) nel 1846 e nel 1848 (al comando dell’ammiraglio statunitense James Bidle). Ma i tempi erano ormai definitivamente cambiati.
La scelta del luogo dello sbarco indica lo scarso livello delle conoscenze occidentali dell’epoca sul Giappone: Uraga si trova all’interno della grande baia che porta ad Edo (attualmente Tokyo), capitale amministrativa e residenza dello shogûn, che possiamo considerare equivalente grossomodo ad un primo ministro ma era una carica ereditaria appannaggio fin dal 1600 della famiglia Tokugawa. Ma la vera capitale del Giappone era ancora Kyoto, ove risiedeva la suprema autorità: il tennô, l’imperatore. La missione Perry presumibilmente non era in grado di valutare appieno questa situazione, non poteva quindi prevedere cosa sarebbe successo negli anni seguenti.
Eppure Perry aveva cercato di documentarsi scrupolosamente, intervistando di persona lo studioso Von Siebold che aveva soggiornato a lungo a Deshima ed esaminando tutta la documentazione allora disponibile sul Giappone.
La lettera del presidente Fillmore alle autorità giapponesi, di cui era latore Perry, non venne accettata: le 4 navi da guerra della squadra, il Mississippi, il Plimouth, il Susquehanna ed il Saratoga, iniziarono allora un pesante bombardamento della costa. La missiva venne infine ritirata, in cambio della cessazione delle ostilità, e Perry ripartì con l’intesa di ritornare a tempo debito per avere una risposta.
Per la prima volta nella storia giapponese fu chiamato a decidere le linee di condotta di fronte alle richieste del governo degli Stati Uniti un largo comitato esteso a tutte le personalità del paese. Che si era però diviso irreparabilmente in due fazioni appostate su posizioni inconciliabili. I tradizionalisti (jôi) chiedevano di respingere gli stranieri e restaurare il potere imperiale di Kyoto, ridotto ormai da quasi 1000 anni a funzioni quasi puramente simboliche. I riformatori continuavano a sostenere il regime Tokugawa di Edo ed erano favorevoli all’apertura del Giappone al mondo esterno.
Il tempo di decidere era ormai arrivato. Veniva avvistata al largo di Kanagawa nel febbraio del 1854 una nuova flotta americana, composta ora da otto vascelli da guerra: l’ammiraglio Perry stava tornando, per ritirare la risposta alle sue richieste.
Dopo lunghe trattative, tagliando corto infine con le discussioni, venne firmato in marzo a nome dello shogûn un trattato di amicizia con gli Stati Uniti. Seguivano a breve termine altri trattati analoghi con la Gran Bretagna, la Russia, l’Olanda.
Conoscere maggiori dettagli di quel primo incontro – scontro tra il sol levante e la “civiltà occidentale” è essenziale per cercare di capire cosa gli uni abbiano capito degli altri, ed attraverso quali sentieri.
Ci aiuterà, in modo molto più sottile di quanto possa sembrare a prima vista, un’esposizione unica nel suo genere: i reperti della spedizione Perry: quello che l’ammiraglio e i consulenti scientifici della sua spedizione ritennero importante, memorabile, necessario. Quello che acquistarono, quello che fu loro donato, quello che richiesero espressamente di avere per riportarlo in patria, classificarlo, studiarlo. O semplicemente come ricordo.
Ma iniziamo prima da una testimonianza diretta: il diario del commodoro Matthew Galbraith Perry (When We Landed in Japan, 1854, da Eva March Tappan, ed., The World’s Story: A History of the World in Story, Song and Art, (Boston: Houghton Mifflin, 1914), Vol. I: China, Japan, and the Islands of the Pacific, pp. 427-437.)
Quando l’aria si schiarì e la riva si aprì alla visuale, l’industrioso lavoro dei giapponesi durante la notte venne rivelato, nello scenario maestoso della costa di Uraga. Schermi ornamentali di tessuto erano stati sistemati per donare un aspetto più dignitoso e anche dimensioni apparentemente maggiori ai bastioni ed al forte; e due tende si allargavano tra gli alberi.
Gli schermi erano tenuti ben tesi nella maniera usuale da pali di legno, e ogni intervallo tra loro era così distintamente marcato da dare in lontananza l’aspetto di una pannellatura. Su questi finti pannelli appariva il blasone delle armi imperiali, alternato con il motivo di un fiore scarlatto circondato da larghe foglie a forma di cuore.
Perry incorreva probabilmente in un significativo equivoco: è da escludere che apparisse sugli stendardi lo stemma imperiale (il kikumon, un crisantemo stilizzato), il tennô si asteneva scrupolosamente da ogni attività “politica” o semplice contatto e la delegazione giapponese era composta invece da rappresentanti dello shogûn.
Forse tradito dalla memoria nella descrizione, è probabile che Perry intendesse riferirsi con il “fiore scarlatto” allo stemma della famiglia Tokugawa, rappresentante 3 foglie di aoi (malva), a forma di cuore, racchiuse in un cerchio. L’altro simbolo era verosimilmente la foglia di kiri (pawlonia), emblema del potere governativo e che in epoca successiva divenne quello delle forze armate e ritroviamo quindi sulle spade usate ancora dagli ufficiali nipponici nella seconda guerra mondiale (shingunto).
Nella illustrazione: il mon dei Tokugawa, chiamato mitsuba aoi, accanto ad una tsuba della scuola Shoami in cui appaiono contemporaneamente il kikumon simbolo del tennô , il kiri simbolo dello shogûn ed il sol levante simbolo del Giappone.
Bandiere e stendardi, sopra i quali vari emblemi erano dipinti a vivaci colori, erano fissati su diversi punti delle schermature, mentre al didietro si addensavano fitte masse di soldati, schierati in costumi che non erano stati notati in precedenza, e che si supponeva riservati ad eventi eccezionali.
La parte principale della loro uniforme consisteva in una specie di tunica dai colori scuri, accompagnata da una corta gonna al di sotto della quale apparivano delle fasciature, priva di maniche e con le armi del loro signore in piena vista.
Prima che suonassero gli otto tocchi del mattino, il Susquehanna ed il Mississippi mossero lentamente attraverso la baia. Simultaneamente al movimento delle nostre navi, si videro sei battelli giapponesi navigare nella stessa direzione, ma tenendosi maggiormente a riva. I vessilli con bande del governatorato distinguevano due dei battelli, mostrando la presenza a bordo di qualche alto ufficiale, mentre gli altri portavano bandiere rosse e probabilmente imbarcavano un seguito o scorta di soldati. Doppiando il promontorio che separava il primo ancoraggio dalla parte inferiore della baia, i preparativi dei giapponesi nel porto vennero immediatamente in vista.
La parte della baia che costeggiava il promontorio era decorata da una lunga cortina di schermi dipinti di tessuto sopra i quali apparivano le armi dell’Imperatore. Nove alti stendardi si ergevano al centro di un numero immenso di bandiere dai differenti vivaci colori, sistemati sull’uno e sull’altro lato in modo che l’assieme formasse un cumulo crescente di bandiere dai vari colori, che sventolavano vigorosamente tra i raggi del sole nascente. Agli alti stendardi erano sospesi larghi pennoni di un ricco scarlatto che sfioravano il suolo ondeggiando nella loro lunghezza. Sulla spiaggia di fronte a quest’apparato erano schierati reggimenti di soldati, immobili in ordine serrato, chiaramente sistemati in modo da fornire una dimostrazione di forza marziale, in modo che gli americani rimanessero profondamente impressionati dalla potenza militare dei giapponesi.
In realtà gran parte di questa messa in scena non avrebbe retto ad un esame approfondito.
In previsione del ritorno di Perry ad esempio le coste delle baia di Uraga erano state fortificate e pezzi di artiglieria erano stati piazzati ovunque.
Si trattava infatti di cannoni posticci, eseguiti affrettatamente quanto rozzamente in legno ma che potevano apparire del tutto credibili vedendoli da una nave.
All’arrivo del commodoro, la sua scorta di ufficiali formò una doppia linea sulla spiaggia, e non appena lui fu passato tra di loro si schierarono in ordine dietro di lui, seguendolo.
La processione era così formata e prese a marciare in direzione del palazzo di ricevimento seguendo la via indicata da Kayama Yezaiman e dal suo interprete, che precedevano il gruppo.
I marines aprivano la marcia e i marinai subito dopo, il commodoro venne degnamente scortato lungo la riva. La bandiera degli Stati Uniti e il largo pennone erano portati da due atletici uomini di mare, che erano stati selezionati tra l’equipaggio della flotta in virtù del loro aspetto impressionante.
Due ragazzi, acconciati per la cerimonia, precedevano il commodoro, portando in un rivestimento di tessuto scarlatto lo scrigno di legno che conteneva le sue credenziali e la lettera del Presidente.
Questi documenti, di formato in folio, erano scritti con arte su pergamena, non arrotolati ma avvolti in velluto di seta blu. Ogni sigillo, attaccato a cordoni di seta ed oro con pendenti d’oro, era incastonato in scrigni circolari di sei pollici di diametro e tre di profondità, rivestiti d’oro puro. Ognuno dei documenti, assieme al suo sigillo, era contenuto in uno scrigno di legno di rosa lungo circa un piede con serratura, cerniere e montature in oro. A ogni lato del commodoro marciava un negro alto e ben proporzionato armato fino ai denti che fungeva da guardia del corpo personale. Questi neri, selezionati per l’occasione, erano i due ragazzi di migliore aspetto che la flotta potesse fornire.
Tutto questo, naturalmente, era studiato per l’effetto.
…
Per qualche tempo dopo che il commodoro ed il suo seguito avevano preso posto ci fu una pausa che durò qualche minuto, senza che venisse pronunciata una parola né da una parte né dall’altra. Tatznoske, l’interprete ufficiale, fu il primo a rompere il silenzio, chiedendo a Mr. Portman, l’interprete olandese, se le lettere fossero pronte per la consegna, e assicurando che il Principe Toda era preparato a riceverle; e che lo scrigno scarlatto all’estremità superiore della stanza era pronto ad accoglierle. Il commodoro dopo che quanto sopra gli fu comunicato fece cenno ai suoi ragazzi che erano rimasti nella hall da basso di avanzare, e loro immediatamente eseguirono i suoi ordini e vennero avanti, recando nelle mani gli scrigni contenenti la lettera del Presidente e gli altri documenti.
Il memoriale della spedizione Perry comprendeva inizialmente delle statue del commodoro e di un dignitario giapponese, a grandezza maggiore del naturale.
Nella foto, scattata nel giorno dell’inaugurazione alla presenza delle autorità giapponesi e di una delegazione statunitense, appare a sinistra, con il grande ombrello, Sukeshichi Hirai, che aveva allora 91 anni ed era probabilmente l’ultimo testimone oculare dell’incontro di Uraga.
Fu lui a permettere di identificare correttamente i luoghi dell’evento. Le due statue andarono in seguito disperse.
I due impressionanti negri seguivano immediatamente dietro i ragazzi, marciando fino al ricettacolo scarlatto dove ricevettero gli scrigni dalle mani dei portatori, li aprirono prendendo le lettere e, mostrando gli scritti ed i sigilli, li depositarono all’interno dello scrigno giapponese, il tutto in perfetto silenzio.
Yezaiman e Tatznoske allora si inchinarono e, camminando sulle loro ginocchia, chiusero i legacci attorno allo scrigno scarlatto e, informando il commodoro che non c’era altro da fare, uscirono dalla sala inchinandosi di fronte ad ognuno cui passavano davanti, ai due lati della sala. Il commodoro allora si alzò per uscire e, appena lui fu partito, i due principi, sempre rimanendo in assoluto silenzio, si alzarono a loro volta rimanendo in piedi finché gli stranieri non scomparvero dalla loro vista.
Va notato ancora una volta che le autorità statunitensi erano rimaste convinte a questo punto di avere concluso un accordo con l’imperatore del Giappone, mentre avevano trattato con una delegazione dello shogûn ed erano in possesso di un documento non avente alcuna efficacia in caso di contestazione o mancata ratifica da parte dell’imperatore.
La storia di Matthew Perry ebbe fine poco dopo. Ritornato negli Stati Uniti nel 1855, gli venne elargita una gratifica di 20.000$ per il complesso del suo lavoro in estremo oriente che comprendeva anche una esplorazione dell’isola di Formosa, di cui aveva suggerito l’occupazione militare. Dedicò gran parte di questa somma alla preparazione di un resoconto in tre volumi della sua missione, che apparve col titolo di Narrative of the Expedition of an American Squadron to the China Seas and Japan.
Venne collocato poco dopo nella riserva, soffrendo di una grave forma di artrite, e scomparve il 4 marzo 1858 in seguito ad una cirrosi epatica dovuta a problemi di alcolismo.
Nel 1858 venivano richieste da Gran Bretagna, Russia, Olanda e Francia, diverse estensioni ai trattati firmati dopo la seconda spedizione Perry. Nonostante il parere sfavorevole della corte imperiale che le riteneva estremamente nocive per gli interessi del Giappone e cariche di clausole vessatorie e infide, le richieste vennero accolte. Ma l’mperatore Komei nel 1864 rifiutò definitivamente di ratificarle, dopo avere a lungo tergiversato negli anni precedenti.
I sentimenti di rancore verso gli stranieri erano largamente condivisi dalla popolazione: nessuno dei vantaggi promessi si era concretizzato, le disinvolte abitudini commerciali degli stranieri seminavano disagio, e numerosi incidenti avevano turbato la nazione. L’assassinio del plenipotenziario Naosuke che conduceva le trattative e quello di un commerciante britannico causarono spietate rappresaglie occidentali. Il bombardamento di Kagoshima da parte della flotta inglese, il cannoneggiamento ripetuto di Shimonoseki per rappresaglia contro le dimostrazioni xenofobe autorizzate dall’Imperatore per evitare sommosse popolari, altri bombardamenti ancora nell’agosto e settembre del 1863. Questi atti di guerra vera e propria causarono gravi perdite nella popolazione civile e gravi turbamenti sociali e politici.
Lo shogûn venne ufficialmente convocato a corte, una procedura ormai inusitata, dove l’imperatore gli comunicò ufficialmente tutta la sua avversione per gli stranieri. Ma lo shogunato era ancora abbastanza forte per resistere. Anche in armi se necessario. Dopo oltre due secoli di pax Tokugawa, le truppe dello Shogûn scesero in campo, riportando una vittoria sanguinosa ma non duratura contro i restauratori, un assemblamento disomogeneo di milizie irregolari reclutate tra i feudi del sud e di truppe imperiali prive di reale efficacia bellica in quanto abituate da secoli a meri compiti di rappresentanza.
Nel 1867 il destino sembrò scendere definitivamente in campo dalla parte dello shogûn: decedeva nel 1866 lo shogun Iemochi.
Gli succedeva al potere l’energico Yoshinobu Tokugawa detto Keiki, cultore delle arti marziali e già comandante delle truppe che avevano respinto l’attacco dei ribelli di Satsuma e Soshu. Aveva all’epoca 30 anni.
Poco dopo, nel gennaio 1867, scompariva improvvisamente a soli 36 anni l’imperatore Komei. Saliva al trono imperiale il sedicenne Mutsuhito, che sembrava destinato ad essere una facile preda del suo antagonista.
E fu invece proprio questo ragazzo, passato poi alla storia col nome di Meiji (che caratterizzò secondo l’usanza giapponese anche l’epoca del suo regno), a far pendere il piatto della bilancia dalla sua parte ed in seguito a governare l’inevitabile per quanto traumatico cambiamento radicale della nazione giapponese.
Qui lo vediamo in una litografia di autore anonimo ma probabilmente ripresa da un ritratto ufficiale di Edoardo Chiossone, pubblicata nel 1893 da Kumazawa Kitarō III; raffigura l’imperatore Meiji e la sua consorte in abiti occidentali. Una doppia sconvolgente novità per la società giapponese, nella quale non era consueto diffondere immagini dell’imperatore, nessun occhio profano poteva guardarlo, e meno che mai in abbigliamento non convenzionale.
Sommerso dalle contestazioni, soprattutto da parte degli aristocratici e delle classi dirigenti, lo shogûn Yoshinobu con gesto teatrale rassegnava nel 1868 le dimissioni dalle sue cariche e funzioni nelle mani dell’adolescente imperatore Meiji.
Secondo la complessa procedura giapponese quest’atto non diminuiva minimamente il suo potere effettivo, ma nessuno aveva previsto che Meiji accettasse queste generiche dimissioni, il 3 gennaio del 1868, precisando minuziosamente caso per caso a quali poteri lo shogûn aveva rinunciato definitivamente. Nonostante la loro ostinata resistenza protratta fino al 1869 inoltrato, i seguaci dello shogûn avevano ormai perduto la loro battaglia.
L’Imperatore proclamava nello stesso 1868 la Carta dei cinque articoli che poneva fine al sistema di divisione per classi, incoraggiava lo studio delle scienze occidentali e iniziava lo smantellamento delle strutture di potere del clan Tokugawa e del sistema feudale stesso. Era forte dell’appoggio dei daimyo del sud, soprattutto Satsuma e Soshu, che spontaneamente rimettevano nelle sue mani tutti i loro feudi. Ormai anche i più fieri oppositori dell’apertura si rendevano conto che non era possibile chiudere di nuovo le porte del Giappone, ma erano ben decisi a non permettere colonizzazioni selvagge come quelle che stavano subendo la Cina ed altre nazioni dell’est asiatico. Il Giappone si sarebbe aperto al mondo, ma alle sue condizioni, cambiando radicalmente la propria struttura sociale ma senza rinunciare alle sue tradizioni.
Dopo una breve ma cruenta guerra, le truppe imperiali appoggiate dai feudatari del sud ebbero ragione di quelle shogunali. Al termine di una difficile trattativa condotta dal maestro Yamaoka Tesshu, lo shogun si arrese, ottenendo salva la vita. Yoshinobu Tokugawa si ritrò a vita privata, scomparendo nel 1913.
E’ facile vedere che la reazione giapponese al trauma causato dall’arrivo in armi praticamente indisturbato dei “barbari” sul sacro suolo del Giappone era allo stesso tempo di attrazione fatale e istintiva repulsione. Furono sicuramente molti i giapponesi che si erano resi immediatamente conto che nulla sarebbe mai più stato come prima, ma molto variegate, di segno addirittura completamente opposto, le loro reazioni pratiche.
A livello politico sconvolgimenti inimmaginabili di stati di fatto ormai quasi millenari scuotevano la coscienza delle classi dirigenti: il governo dello Shogun arrivava al termine della sua parabola. L’Imperatore riprendeva la guida materiale del paese: tramontava l’epoca Tokugawa, nasceva l’era Meiji.
Ci fu chi sposò immediatamente la causa del cambiamento, ci fu invece, e tra loro molti adepti delle arti marziali, tentòestreme quanto disperate ribellioni. Ma invano.
Come più o meno negli stessi anni si tramanda abbia detto il principe Salinas nella sua Sicilia sconvolta dalla spedizione di Garibaldi, “tutto doveva cambiare perché nulla cambiasse”.
Nella stampa a fianco, di Tsukioka Yoshitoshi: ritratto di Komagine Hachibei; stampa della serie
Cento guerrieri scelti da Yoshitoshi.
In questa serie che avrebbe dovuto rappresentare leggendari eroi della storia giapponese, erano in realtà raffigurati gli sfortunati protagonisti della ribellione di Satsuma.
Nel 1871 venivano definitivamente aboliti i privilegi della classe militare. La classe dei samurai, punta di lancia e nucleo allo stesso tempo del sistema feudale dei Daimyo, veniva soppressa.
Veniva proibito nel 1876 il porto delle due spade da parte dei samurai, causando enormi reazioni emotive che sfociarono un anno più tardi nella ribellione armata condotta da Saigo Takamori, che era stato negli anni precedenti uno dei più validi generali della fazione imperiale, nella bellicosa terra di Satsuma.
Accorsero samurai da ogni parte del Giappone, per opporsi in armi alla forzata modernizzazione del Giappone, ma l’esercito imperiale che nel frattempo si era inquadrato ed equipaggiato modernamente, ed era assistito da numerosi consiglieri militari, ebbe ragione di loro. Quando ogni resistenza fu vana Takamori, assieme al suo stato maggiore, si tolse la vita.
Ma se Meiji sembrava avere bruscamente invertito la sua politica, accettando il processo di modernizzazione ed apertura delle frontiere che aveva solo pochi anni prima combattuto con le armi, era per poter pilotare l’ormai non procrastinabile processo innovativo, preservando al tempo stesso la tradizione millenaria della cultura giapponese.
Iniziava anche tra le altre cose un processo travagliato da cui dovevano poi nascere diverse generazioni più tardi le arti marziali moderne, che trovavano nuove motivazioni e nuovo slancio vitale in quello che ormai sembrava un fuoco destinato a spegnersi per sempre.
Dopo una generazione di transizione, formata da maestri di enorme spessore tecnico e spirito marziale indomabile, reduci materialmente o idealmente dalla sanguinosa ribellione di Satsuma soffocata col sangue dei samurai, che si lanciavano all’attacco sguainando le nude lame contro i fucili dell’esercito (ormai equipaggiato ed addestrato all’occidentale e arruolato mediante leva obbligatoria, non più formato di guerrieri), venne una nuova generazione di maestri che seppero trovare una nuova tensione ideale, che seppero indirizzare verso fini ben più alti le loro energie e il patrimonio di conoscenze dei loro avi.
L’imperatore Mutsuhito, conosciuto come Meiji il grande, il primo imperatore tornato ad esercitare dopo un millennio il potere temporale, scomparve nel luglio del 1912, precedendo di poco la scomparsa del suo nemico di alcuni anni prima, l’ultimo degli shogun Yoshinobu Tokugawa.
Tratto da:
https://www.musubi.it/it/costume/pionieri/317-perry.html
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