di David Caylam
01.05.2019
Il celebre quotidiano francese Le Figaro dà voce a un commento critico sull’euro e l’Unione europea. A vent’anni dalla sua creazione, l’euro non è l’unico problema, ma simboleggia perfettamente ciò che non funziona della cosiddetta “integrazione” europea: l’imposizione di uno standard unico a paesi con storie e caratteristiche profondamente eterogenee nella struttura economica, con tassi di inflazione divergenti ed esigenze sociali diverse. Uno standard che, ovviamente, si conforma ad alcuni meglio che ad altri, e che agli eterni inadeguati – tra i quali la Francia deve ormai riconoscersi a pieno titolo – può solo additare il supremo credo dell’ideologia neoliberale: “Bisogna adattarsi”.
Lo scorso febbraio un istituto di ricerca tedesco d’ispirazione ordoliberale, il Centro per le politiche europee (CEP), ha festeggiato a proprio modo i vent’anni dall’istituzione della moneta unica pubblicando uno studio che mostrava come, dopo vent’anni di esistenza, l’euro abbia avuto effetti contrastanti. Se per alcuni paesi, tra cui la Germania e i Paesi Bassi, l’Unione Monetaria si è tradotta in un guadagno pro-capite stimato in oltre 20.000 euro nel periodo 1999-2007, per altri si è tradotta in una perdita, e le perdite accumulate sono apparse considerevoli, ovvero circa 56.000 euro a testa in Francia e 73.600 euro a testa in Italia.
Dunque la moneta unica non ha avuto gli stessi esiti per tutti i paesi. Il rapporto annuale del Fondo Monetario Internazionale (FMI) sugli squilibri esterni ha sottolineato anche come, per diversi anni, il tasso di cambio dell’euro sia stato sopravvalutato per alcuni paesi come la Francia e l’Italia (e questo ha influito [negativamente] sulla loro competitività), e sia stato invece ampiamente sottovalutato (di circa il 20%) per la Germania, rappresentando così per essa un vantaggio decisivo, che spiega anche il suo enorme surplus estero.
In vent’anni l’economia europea si è trasformata profondamente
Perché una stessa moneta dovrebbe produrre effetti così diversi da un paese all’altro? La Francia è dunque inadatta all’euro? E se sì, per quale ragione?
Certo, possiamo sempre mettere in discussione l’attendibilità di questi studi, e specialmente del primo dei due, la cui metodologia è in realtà discutibile. La cosa fondamentale, però, è che ridurre gli squilibri economici europei alla sola questione monetaria rischia di far dimenticare le numerose trasformazioni istituzionali che hanno interessato in profondità l’economia europea nel corso degli ultimi decenni.
Dalla fine degli anni ’90 la creazione del mercato unico, la liberalizzazione dei precedenti monopoli pubblici, il rafforzamento delle politiche di austerità, la crescente finanziarizzazione dell’economia, la riforma della politica agricola comune, la messa in opera generalizzata di un sistema di mercato concorrenziale controllato dalla Commissione, la firma di un gran numero di trattati di libero scambio e, soprattutto, gli ampliamenti dell’Unione europea nel 2004 e nel 2007 verso i paesi dell’Europa centrale e orientale, portati all’interno dello spazio economico europeo, hanno contribuito a intensificare il dumping sociale. Per questo l’Unione europea del 2019 in realtà non ha più molto a che vedere con quella di vent’anni fa. Tutto è stato cambiato nell’economia europea, non solo la moneta.
A rigor di logica non possiamo dunque ritenere la moneta unica come l’unica causa degli squilibri economici attuali. Inoltre, quando guardiamo le dinamiche industriali europee nel corso degli ultimi vent’anni, come ho già fatto in uno studio recentemente pubblicato, possiamo constatare che l’appartenenza all’eurozona non è un criterio determinante. I paesi europei periferici che si situano al di fuori dell’eurozona, come il Regno Unito e la Svezia, si sono de-industrializzati allo stesso ritmo dei paesi che hanno adottato l’euro e che si situano nelle stesse aree geografiche, come la Francia la Finlandia. Allo stesso modo, i paesi centrali hanno attirato investimenti industriali sia che appartenessero all’eurozona (Germania e Austria) che no (Polonia e Repubblica Ceca).
La creazione della moneta unica rappresenta solo una delle molte riforme che hanno contribuito a trasformare l’economia europea. Sebbene si tratti della più emblematica e ambiziosa di tutte le riforme, ha anche svolto un effetto parafulmine attirando tutte le critiche e mascherando la logica d’insieme attorno alla quale è ormai organizzata l’economia europea.
Un nuovo sistema economico europeo
Qual è, esattamente, questa logica d’insieme? Tra il 1986 e il 2012, l’economia dell’Unione europea è stata completamente ricostruita attorno a sei trattati.
L’atto unico del 1986, che stabiliva i principi del mercato unico, il trattato di Maastricht del 1992, che ha gettato le basi per l’euro e le sue caratteristiche principali, poi il trattato di Amsterdam del 1997, che perpetuava e rafforzava i vincoli di bilancio previsti da Maastricht, il trattato di Nizza del 2001, che ha riorganizzato le istituzioni europee in vista di un ampliamento, il trattato di Lisbona del 2007, che ha ripreso i punti essenziali del trattato costituzionale europeo che era stato respinto due anni prima, e che ha riscritto e precisato tutti i trattati precedenti, e infine il Fiscal Compact del 2012, che rafforzava i vincoli di bilancio a cui gli Stati sono chiamati a sottoporsi. Questi sei trattati hanno stabilito un’architettura economica volta a inquadrare le economie nazionali in un insieme di regole comuni e a farle convergere istituzionalmente.
Negli anni ’70 le economie europee avevano alcune specificità che avevano ereditato dalla loro storia, dalla loro cultura e dalle loro istituzioni nazionali. La Francia si caratterizzava per un capitalismo fondato sulle grandi imprese, su un settore pubblico forte, su rapporti conflittuali tra classi sociali e su un’amministrazione centrale forte. L’Italia era un paese di piccole e medie imprese efficienti, con una moneta debole e un settore finanziario poco sviluppato. L’industria del Nord Italia beneficiava di una forza lavoro nazionale a basso costo proveniente dal Sud del paese, e questo la rendeva molto efficiente. La Germania, dal canto suo, poteva contare su un dinamismo industriale fondato sulle complementarità tra il suo sistema di istruzione, i länder [le regioni tedesche, NdT] forti e capaci di intervenire nell’economia, un settore bancario che non esitava a investire a lungo termine per lo sviluppo industriale, e un sindacalismo di co-gestione.
Ciascuno di questi tre paesi aveva sperimentato un piccolo miracolo economico durante i “Trenta Gloriosi” [il trentennio di crescita economica fra il 1945 e il 1975, NdT], costruendo modelli di crescita che gli erano propri e che li rendevano efficaci, non solo al proprio interno, ma anche verso l’estero. Così, fino all’inizio degli anni ’80, l’Italia esportava più della Germania in proporzione al proprio PIL, e accumulava regolarmente ampi surplus commerciali.
La Francia beneficiava di un forte settore industriale costruito su grandi progetti nazionali basati su ambiziose politiche pubbliche (nuclearizzazione dell’energia, treno ad alta velocità, Airbus…).
Un unico “stampo” europeo
I trattati europei hanno contribuito a smantellare proprio queste specificità nazionali. Fino al 1980 la CEE aveva stabilito un sistema economico pragmatico che consisteva, in fondo, nella protezione del mercato comune tramite un dazio unico verso l’esterno e tramite la rimozione degli ostacoli alla circolazione delle merci al proprio interno, al fine di aumentare la quantità potenziale di sbocchi economici per le proprie industrie. Negli anni ’90, il mercato comune si è trasformato in mercato unico. Alla libera circolazione delle merci si è aggiunta quella dei capitali e della forza lavoro. Per evitare distorsioni della concorrenza, si è deciso di limitare rigorosamente gli interventi pubblici. Rispetto al resto del mondo, si è deciso di sopprimere tutti i limiti alla circolazione dei capitali e di siglare accordi commerciali multilaterali, nel quadro del GATT e dell’Organizzazione Mondiale del Commercio, e poi di moltiplicare i trattati di libero scambio bilaterali.
L’economia europea ha quindi imposto uno “stampo” legale (un mercato unico, una moneta unica) identico per tutti i paesi europei. È uno stampo basato sulla finanziarizzazione dell’economia, sulla concorrenza interna ed esterna e sull’arbitraggio economico dei mercati.
È evidente che c’erano modelli economici nazionali più compatibili con questo stampo, e altri meno. L’euro è emblematico. Tutti gli studi concordano: una stessa moneta può avere effetti opposti a seconda di come funzionano le economie. In effetti una moneta unica implica una banca centrale unica e un tasso di rifinanziamento unico. Tuttavia i tassi di inflazione sono diversi da un paese all’altro, quindi il tasso di interesse reale proposto dalla BCE sarà troppo basso per i paesi con maggiore inflazione (favorendo così la creazione di bolle finanziarie) e troppo elevato per i paesi con minore inflazione, col rischio di danneggiare gli investimenti. Allo stesso modo, uno stesso tasso di cambio non può essere adatto a un insieme eterogeneo di economie.
La libera circolazione dei capitali ha rafforzato la concentrazione degli investimenti industriali nei paesi “core”, dove si trovano i principali porti del Mare del Nord e le vie navigabili, a danno dell’Europa periferica. Certi paesi hanno così visto aumentare le proprie esportazioni, generando grandi surplus i quali, normalmente, dovrebbero causare un aumento del valore della moneta. Al contrario, i paesi in via di de-industrializzazione dovrebbero normalmente beneficiare di una svalutazione della moneta, ma lo “stampo” della moneta unica impedisce questi aggiustamenti.
La creazione del mercato unico ha generato problemi simili. L’esacerbazione della concorrenza europea non ha tenuto in alcun conto le disparità tra i sistemi fiscali e sociali. E invece le necessità in termini di spesa pubblica e di prestazioni sociali (pensioni, spesa sanitaria, politiche familiari) sono legate a parametri demografici e culturali che sono strettamente nazionali.
“Bisogna adattarsi”
L’euro è sintomatico di un sistema che è passato da una logica in cui le istituzioni economiche erano nazionali, per il fatto che dovevano adattarsi alle specificità dei paesi, a una logica del tutto opposta dove è necessario adattare le economie nazionali a un quadro istituzionale prestabilito e definito direttamente su scala europea. Il problema è che negando le specificità nazionali e imponendo a ciascun paese di adattarsi a un quadro comune, senza realizzare che ciascuno si era evoluto a partire da un universo istituzionale diverso e suo proprio, ha decisamente rafforzato le dinamiche di divergenza anziché creare la convergenza voluta.
In un libro pubblicato recentemente, Barbara Stiegler riassume l’ideologia neoliberale in una formula: “Bisogna adattarsi”. Sottolinea giustamente questo meccanismo del pensiero sotteso all’ideologia contemporanea. Spiega che l’essenza del neoliberalismo non è, contrariamente al liberalismo classico, quella di assicurare a tutti la libera ricerca della propria emancipazione personale, ma piuttosto quella di produrre una camicia di forza normativa rigida, stabilita in nome di un principio superiore – ad esempio la concorrenza libera e non distorta – che in realtà non è che un meccanismo per creare una gerarchia tra quelli che a tale principio si adattano facilmente e ne traggono vantaggio, e gli altri, il cui processo di adattamento sarà infinito perché si troveranno eternamente “in ritardo” rispetto ai paesi leader.
I risultati dello studio del CEP menzionato all’inizio sono, a tale proposito, alquanto rivelatori. Secondo questi economisti, se la Francia e l’Italia sono i grandi perdenti dell’euro, non sarebbe perché la creazione della moneta unica ha posto di per sé un problema, ma perché questi paesi avrebbero accumulato un “ritardo” nelle riforme delle loro istituzioni nazionali.
Vent’anni dopo la sua creazione, è ora di ammetterlo. L’euro non è stato fatto per servire le economie europee, ma per fornire un quadro normativo al quale le economie stesse sono costrette ad adattarsi. Ma ciò che non viene mai ricordato è che proprio questo imperativo di “adattarsi” equivale a negare le differenze geografiche, storiche, culturali, che persistono tra un paese e l’altro e che restano assolutamente reali. E così, anziché consentire alla Francia o all’Italia di adottare una politica monetaria e industriale che si adatti alle loro proprie realtà economiche, l’euro e il mercato unico, nel loro funzionamento, impongono eterne e inattuabili riforme volte a compensare il “ritardo” in una competizione le cui regole sono, in tutta evidenza, distorte.
Traduzione di Henry Tougha per:
http://vocidallestero.it/2019/05/01/le-figaro-come-leuro-ha-condotto-la-francia-allimpasse/
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