di Francesco Carraro
Il discorso d’addio, di quattro minuti appena, di Nigel Farage al Parlamento europeo – con il quale il più noto dei politici inglesi anti-euro ha salutato l’Unione – è una miniera di spunti di riflessione. E non solo, si badi bene, per i cosiddetti “populisti” e “sovranisti”, ma anche per tutti gli altri. Persino per chi ha sempre creduto, e ancora crede, alla prospettiva di una integrazione libera e democratica fra gli Stati del Vecchio Continente. Analizziamolo, allora, passaggio per passaggio.
Solare verità, sia sul piano storico che sul piano della coscienza di massa. Le prime forme di cooperazione rafforzata tra gli Stati europei datano 1951 e 1957 (trattati di Parigi e di Roma) e si connotano per l’istituzione di una “comunità” europea del carbone e dell’acciaio e di una “comunità economica” europea (CEE).
Si trattava di intelligenti e lungimiranti forme di “comunitarismo interstatuale” che avevano un senso; e infatti funzionavano proprio perché concepite in una logica di “Comunità”, non di “Unione”. E si muovevano su un piano “economico”, non “politico”.
Non pretendevano, insomma, l’impossibile, vale a dire la fusione a freddo di nazioni troppo diverse per diventare una cosa sola.
Moltissimi europei, singoli cittadini e interi popoli, hanno inizialmente aderito con entusiasmo a questo progetto, proprio perché non intaccava la loro indipendenza e autonomia nazionale.
Questo spirito è stato tradito dagli eventi successivi. E il tradimento è consistito nell’aver traghettato gli europei da quel disegno (comunitario e di matrice economica) a uno tutt’affatto diverso (unionista e di matrice politica), dove si è preteso di imporre un presidente, una bandiera, un inno a persone e a nazioni che già ne avevano di propri senza desiderarne, né averne mai desiderati di nuovi.
Farage prosegue, poi, con un’annotazione sul sedicente “processo democratico” con cui si è arrivati a questa Unione: “Nel 2005 ho visto la Costituzione scritta da Giscard d’Estaing e da altri, l’ho vista bocciata dai francesi in un referendum e poi l’ho vista bocciata dagli olandesi in un referendum e ho visto voi in queste istituzioni ignorarli, riportarla nella forma del Trattato di Lisbona e vantarvi di averla fatta passare senza referendum”.
Anche in questo caso, chi può negarlo? La marcata tendenza delle élite europee a portare avanti la missione integrazionista a dispetto delle manifestate volontà popolari non è un’opinione, ma un dato di fatto.
A questo punto il discorso di Farage fa un salto di qualità e pone la domanda che tutti avremmo dovuto porci molti anni fa e che oggi forse, almeno per noi, suona drammaticamente tardiva: “Cosa vogliamo dall’Europa? Se vogliamo commercio, amicizia, collaborazione, reciprocità non abbiamo bisogno di una Commissione Europea, della Corte Europea di Giustizia, di tutte queste istituzioni e di tutto questo potere”.
Touché: ancora una volta.
L’Unione attuale è un “termitaio” di burocrati il cui vertice pianifica i bilanci dei singoli stati di semestre in semestre; e lo fa con una ossessione patologica per le virgole e i decimali.
Ancora una volta, non è ciò che gli europei, e i loro padri nobili, avevano in mente quando pensavano al futuro dei propri paesi.
A un certo punto Farage esclama: “Noi adoriamo l’Europa, ma detestiamo l’Unione Europea”.
Pure in questa affermazione c’è un potente afflato di verità in grado di spazzare via un micidiale equivoco: l’idea che gli euroscettici o gli euro-critici, i populisti e i sovranisti, debbano essere tutti necessariamente dei nazionalisti ottusi e bellicosi, l’uno contro l’altro maldisposti. È vero il contrario: la gran parte di essi adora l’Europa intesa come “comunità” di Stati indipendenti e pacificamente cooperanti, ma non sopporta più questo tipo di “unione” forzata fra gli stessi.
La conclusione del discorso di Farage, per finire, è una metafora perfetta di quanto egli ha detto, nei quattro minuti del suo intervento, e di quanto è accaduto nei quarant’anni che abbiamo alle spalle.
Farage e i suoi iniziano poi a sventolare la bandiera del Regno Unito e, per questo, il Presidente del parlamento gli toglie la parola minacciando: “Se disobbedisce alle regole, il suo microfono viene tagliato; per favore rimuova le bandiere”.
Ecco cosa è, oggi, l’Unione: una a-democratica e coatta rimozione delle identità nazionali.
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