Rilanciamo nel nostro blog questo interessantissimo articolo di Ilaria Bifarini tratto dal suo sito: Il Forum di Davos abolisce anche la felicità – ILARIA BIFARINI
“Non avrai nulla e sarai felice”: è questo il messaggio lanciato da un giovane dal sorriso smagliante sulla piattaforma istituzionale del Forum di Davos, quell’organismo internazionale che abbiamo imparato a conoscere per la sua capacità di prevedere e indirizzare gli eventi futuri a livello globale. Era il 2017 e nelle sue Otto previsioni per il mondo nel 2030 metteva al primo posto proprio la fine del concetto di proprietà di beni da parte dei cittadini, per sostituirlo con quello di fruizione di servizi divenuti gratuiti grazie al rimpiazzo del lavoro umano con le nuove intelligenze artificiali.
Era il sogno distopico raffigurato in Benvenuti nel 2030, dove la proprietà privata e la privacy non esistono dalla danese Ida Auken, sempre sul sito del Forum di Davos (l’articolo originale, come si può verificare dal link https://www.weforum.org/agenda/2016/11/shopping-i-can-t-really-remember-what-that-is/, risulta stranamente rimosso, analogamente a quanto abbiamo visto con il documento della Rockefeller Foundation). Un futuro, molto prossimo, in cui insieme al concetto di proprietà viene abolita anche la privacy, dove non solo tutto ciò che faremo, ma anche ciò che penseremo o sogneremo verrà monitorato, con il fine, inequivocabile per i fautori del nuovo mondo, di realizzare un bene collettivo superiore e traghettare l’umanità verso un futuro idilliaco, rispettoso dell’ambiente e inclusivo. Ma ora gli aedi del Grande Reset hanno deciso di compiere un ulteriore passo avanti nella riscrittura della storia dell’umanità, con l’asserzione di una tesi alquanto rivoluzionaria: nella vita la felicità non conta!
A sostenerlo è la ricerca di due psicologi di provenienza accademica, Shige Oishi ed Erin Westgate, pubblicata sul sito del World Economic Forum nella sezione relativa al futuro della salute e del benessere della Agenda Globale. Secondo la tesi riportata, sarebbe giunta l’ora di superare sia la concezione edonistica della felicità, intesa come raggiungimento di un piacere immediato, sia quella eudaimonistica aristotelica, legata alla ricerca e al perseguimento di uno scopo di bene comune. Il termine eudaimonìa deriva dal greco eu, bene e daimon, traducibile come “essere divino”, “genio”, “spirito guida”‘ o “coscienza”: etimologicamente significa “essere in compagnia di un buono spirito”. La felicità secondo Aristotele consisteva nel realizzare la propria natura e, poiché l’essenza dell’uomo è rappresentata dalla ragione e dalla virtù, essa non potrà mai essere che nella saggezza.
Tale teoria ha ispirato e dato vita a innumerevoli correnti di pensiero e da sempre l’uomo si interroga su cosa significhi vivere bene, essere felici, sviluppare pienamente le proprie potenzialità e peculiarità, tanto che diversi ordinamenti nazionali riconoscono tali ambizioni come diritti costituzionalmente sanciti. Ma lo studio dei due accademici sembra d’un colpo demolire tutto il sapere filosofico e ontologico esistente per proporne uno nuovo, più in linea con la società contemporanea. Per vivere bene, sostengono, non è importante essere felici o perseguire degli obiettivi, ma occorre condurre una vita psicologica “ricca”, laddove con questo aggettivo si intende significativa, caratterizzata da “esperienze interessanti in cui la novità e/o la complessità sono accompagnate da profondi cambiamenti di prospettiva”.
Immancabile nella società dell’Erasmus, lo studio all’estero viene citato come esempio di una simile ricchezza, poiché rappresenterebbe uno stimolo a riconsiderare i costumi sociali della propria cultura di provenienza. Dunque, un’esperienza per qualificarsi come psicologicamente arricchente non deve essere positiva, può anche consistere in una difficoltà, come vivere la guerra o un disastro naturale o persino eventi dolorosi della propria vita, come la malattia o la disoccupazione. L’autrice dello studio, ricordando i propri viaggi negli ostelli quando era giovane, afferma che ci sono momenti della nostra vita in cui accettiamo il disagio e diamo la priorità all’esplorazione. Se, come mostrano le ricerche, le persone tendano a diventare più felici con l’avanzare dell’età, è perchè “invece di dare la priorità alle esperienze impegnative, danno la priorità alle cose familiari che le renderanno felici; invece di incontrare nuove persone, danno la priorità alla famiglia e agli amici intimi. Quelle cose aumentano la felicità, ma possono diminuire la ricchezza psicologica”. Perciò la stabilità e la solidità che si raggiungono con la maturità sarebbero forieri di felicità, ma nemici della ricchezza psicologica, che prevede invece un turbinio di esperienze, siano esse positive o negative, e di cambiamenti di prospettiva.
È l’apologia dell’identità liquida, che fluttua da un lido a un altro senza una meta e il cui contenuto prende ogni qualvolta la conformazione del contenitore che lo ospita. Un vivere facendosi trasportare dagli eventi, senza la ricerca eudaimonistica e propositiva della propria natura, del proprio desiderio individuale capace di saldarsi con la legge morale e di elevare l’uomo. Nessuna priorità viene concessa all’amore, alla famiglia, alla dedizione per il proprio lavoro, né tantomeno alla virtù e al sapere socratico. Per avere una vita psicologicamente ricca, l’importante non è neanche vivere, ma sopravvivere, come fa una pianta che resiste alle intemperie e si adatta all’ambiente circostante.
È il grande reset della natura umana, che vede quel 2030 pauperista e nichilista fantasticato a Davos sempre più vicino.
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