di Andrea Signorelli
Dal momento che Watchmen si svolge in un universo alternativo (in cui gli Stati Uniti hanno vinto la guerra del Vietnam facendolo diventare parte della repubblica federale), non è così facile distinguere gli avvenimenti storici da quelli inventati. E così, osservando le scene iniziali della serie tv tratta dal capolavoro del fumetto di Alan Moore e Dave Gibbons, mi sono ritrovato nel dubbio: ma questa rivolta di Tulsa del 1921, in cui i bianchi hanno assaltato un quartiere nero soprannominato Black Wall Street – ammazzando, bruciando e addirittura bombardando dal cielo – sarà vera o inventata?
Possibile che fosse successo un avvenimento tanto devastante e che non ne avessi mai sentito parlare? Che dei civili avessero usato aerei per sganciare bombe dall’alto? E che non fosse stata un’azione condotta dal Ku Klux Klan o altri gruppi razzisti e terroristi, ma da migliaia di persone? Eppure, il nome Black Wall Street non mi era del tutto nuovo; per la precisione era stato utilizzato dal rapper The Game per battezzare la sua crew. E infatti era tutto vero, fin nei più piccoli dettagli. Non deve neanche stupire che, da questa parte dell’oceano, si sappia così poco della vicenda, visto che è avvolta nella nebbia anche negli stessi Stati Uniti.
Black Wall Street era il soprannome con cui era nota Greenwood Avenue, l’epicentro della comunità nera che viveva nella città di Tulsa, Oklahoma. Una comunità delimitata dalla “Linea”: i binari della ferrovia che per oltre un secolo hanno diviso la zona nord (nera) e quella sud (bianca) della città. Come il nome suggerisce, Black Wall Street era un quartiere particolarmente florido, con hotel, ristoranti, pellicciai e anche un precoce servizio taxi svolto a bordo delle classiche Ford Model T.
Nel complesso, circa 200 imprese commerciali popolavano la zona, punteggiate da case altrettanto imponenti di quelle che si potevano trovare nel quartiere bianco. In poche parole, nei primi del ’900 (a pochi decenni dall’abolizione della schiavitù) Greenwood Avenue era uno dei simboli nazionali dell’imprenditoria nera; in un periodo in cui, non c’è bisogno di dirlo, la segregazione non era ancora nemmeno stata scalfita.
Un luogo in cui la comunità nera può svilupparsi e prosperare liberamente non aveva molte probabilità di sorgere negli Stati Uniti razzisti dell’epoca. E infatti, come racconta Victor Luckerson, gli afroamericani arrivarono in Oklahoma “assieme ai nativi americani durante il Sentiero delle Lacrime (la deportazione forzata subita da questi ultimi, nda) nella metà del 19° secolo, sia come schiavi che come uomini liberati. Grazie ai negoziati tra gli Stati Uniti e le tribù native dopo la Guerra Civile, molte delle persone nere che avevano ricevuto la cittadinanza da queste tribù erano infine riuscite ad avere accesso a importanti porzioni di territorio”.
È una situazione del tutto particolare, quindi, quella che porta un gran numero di afroamericani in Oklahoma e consente loro di dare vita a comunità e metterle nelle condizioni di agire. “Unendo le loro risorse e dando il benvenuto ai neri del sudest in cerca di una vita migliore, furono in grado di fondare una mezza dozzina di cittadine all-black sparse nella regione. Nel 1890, Edwin P. McCabe, politico e fondatore della cittadina di Langston, arrivò a incontrare il presidente Benjamin Harrison per proporgli l’idea di trasformare tutto il territorio dell’Oklahoma in uno stato solo nero”.
Tulsa, che non è all-black e la cui comunità nera è confinata nella parte nord della città, diventa una città in pieno boom economico anche grazie alla scoperta del petrolio nel 1901, che crea ricchezza per tutti i proprietari di terra; principalmente bianchi, ma anche i neri che erano riusciti ad aggiudicarsi dei terreni grazie ai legami con le tribù indiane. Quando nel 1905 apre il primo negozio di alimentari, all’angolo tra Greenwood Avenue e Archer Street, nasce anche Black Wall Street.
Un nome improprio, a dire la verità. Greenwood è un prospero viale di piccoli negozi, più simile alla Main Street che viene da sempre contrapposta proprio a Wall Street. “Stiamo parlando di aziende a conduzione familiare. Cose come farmacie, mercerie, cinema, negozi di cosmetica. E di servizi professionali come dottori, avvocati, dentisti. Il tipo di piccole imprese che rendono un posto vivace e coinvolgente per le persone”, ha raccontato Hannibal Johnson, autore di Black Wall Street: from riot to renaissance.
Nel 1921, Greenwood si è arricchita anche di una scuola superiore, di un hotel a tre piani e di quel cinema muto accompagnato da un pianoforte che compare proprio in Watchmen. Gli 11mila abitanti avevano inoltre a disposizione 23 chiese, due quotidiani e una biblioteca. L’economia funziona e il denaro viene reinvestito per costruire nuove case e dotare il quartiere di parchi pubblici. Non è un’utopia, ovviamente: nelle strade che circondano il viale principale ci sono baracche in cui non arriva nemmeno l’acqua, e non mancano droga, prostituzione e gioco d’azzardo.
Assieme a città come Richmond (Virginia) o Durham (North Carolina), Tulsa è comunque uno dei primissimi esempi di successo economico da parte della comunità nera degli Stati Uniti. Ma ciò che per i suoi abitanti è Black Wall Street, dall’altra parte dei binari, nella zona sud della città, viene chiamata “niggertown”. Il risentimento di fronte al successo di Greenwood Avenue cresce anno dopo anno; mentre nel resto degli Stati Uniti, e in particolar modo durante la Red Summer del 1919, le violenze razziali da parte dei bianchi si moltiplicano e causano centinaia di vittime.
A Tulsa ci vorranno un paio d’anni in più. Ma alla fine il pretesto viene trovato. È il 30 maggio 1921 quando un ragazzo nero di 19 anni, Dick Rowland, entra in un ufficio del centro e prende un ascensore operato da una ragazza bianca, Sarah Page. Tra i due succede qualcosa: secondo Sarah è una molestia (ma più tardi ritratterà le accuse), Dick afferma di averle solo messo una mano sul braccio. In ogni caso, nel momento in cui le porte dell’ascensore si riaprono, Sarah Page sta urlando e Dick Rowland sta scappando a gambe levate, perfettamente consapevole di star rischiando la vita.
Quando viene arrestato e condotto nel tribunale di Tulsa, il timore all’interno della sua comunità è che possa subire un linciaggio (non sarebbe certo la prima volta). Per questa ragione un gruppo di uomini, alcuni dei quali armati, si dirige la sera del 31 maggio nel centro della città, con lo scopo di assicurarsi che nulla del genere avvenga. Si trovano davanti a una folla di uomini bianchi, anch’essi a volte armati. La scintilla che fa esplodere tutto è un litigio: viene esploso un primo colpo di pistola, dopo pochi minuti ci sono una ventina di persone a terra tra morti e feriti.
La mattina dopo si scatena la violenza. Secondo le fonti, 5mila bianchi armati, decine dei quali appartenenti alle forze dell’ordine, scendono su Greenwood con l’obiettivo di ristabilire la supremazia razziale. Le case vengono saccheggiate e bruciate, gli abitanti trascinati fuori e spesso uccisi; aeroplani volano in cerchio sopra il quartiere sganciando – secondo le testimonianze dei sopravvissuti – bombe incendiarie create con solvente o combustibile. Su un camion viene montata una mitragliatrice automatica: ultima conferma di come il quartiere fosse diventato una zona di guerra.
Parte della comunità assalita con tale violenza fugge e non torna più; la maggior parte viene invece incarcerata, lasciata in attesa che qualche bianco garantisca per essa e costretta a circolare con una carta identificativa che segnali l’assenza di minaccia. Nel complesso, 1.256 case furono distrutte, 215 saccheggiate, 9mila persone (quasi la totalità della popolazione nera) si ritrovò senza un tetto. Tutti i negozi e le imprese che costituivano la Black Wall Street erano svaniti. I morti esatti non si sono mai saputi: il computo ufficiale è di 39, ma la stessa commissione che ha prodotto la stima ha ammesso che un calcolo più credibile si attesta tra le 100 e le 300.
Il gran giurì chiamato a investigare subito dopo l’accaduto diede però la colpa agli uomini neri che si erano recati in tribunale, negando i risarcimenti milionari richiesti. L’incidente (se così si può chiamare) venne rapidamente archiviato; la ricostruzione, invece, iniziò subito, nonostante gli ostacoli disseminati ovunque. I funzionari municipali, per esempio, richiesero che tutte le case fossero ricostruite con costosi materiali anti-incendio e che fossero alte almeno due piani; in un chiaro tentativo di rendere la ricostruzione troppo costosa per le tasche della comunità. Grazie al lavoro di un trio di avvocati, la Corte Suprema definì però incostituzionale la richiesta e i lavori poterono effettivamente partire.
Non impiegarono molto tempo: già alla fine del 1921 erano nuovamente in piedi 800 edifici e verso la metà del 1922 tutte le case del quartiere erano nuovamente agibili. Nel 1925, proprio a Tulsa si tiene la conferenza annuale della Negro Business League: chiaro segnale di come l’attività economica della comunità fosse ripartita con la stessa energia di prima. E così va avanti per decenni: negli anni ’40 sono in attività 250 esercizi e nomi del calibro di Duke Ellington e Louis Armstrong si esibiscono nei jazz club della città.
Black Wall Street è risorta dalle sue ceneri, ma la memoria del massacro non viene tramandata. “Nessuno impara l’accaduto a scuola e, a casa, molte famiglie nere preferiscono seppellire il trauma piuttosto che tramandarlo ai loro discendenti”, scrive ancora Luckerson. Arrivando ai giorni nostri, a causare la fine della Black Wall Street non sono state le violenze e gli incendi, ma il cemento, la gentrification e anche (fortunatamente) l’integrazione. Una strada statale sopraelevata ha infatti diviso in due Greenwood Avenue, ma soprattutto il rinnovamento urbano della zona e l’integrazione razziale hanno smussato i rigidi confini di un tempo; provocando però allo stesso tempo la graduale scomparsa della comunità.
Ed è proprio perché Black Wall Street oggi sta svanendo che è importante che una storia semi-dimenticata venga raccontata; come fanno alcuni artisti del luogo attraverso messe in scena teatrali, come stanno cercando di fare – tra difficoltà spesso insormontabil – nomi importanti come Oprah Winfrey e il regista Tim Story e come ha fatto, più in piccolo, lo stesso Watchmen. Nel frattempo, il centenario del massacro si avvicina. E forse sarà quella l’occasione per sollevare definitivamente il velo su questa storia.
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