di Thomas Fazi
09.10.2019
Un giornalista mi ha chiesto se ritengo che la debolezza della sinistra odierna risieda nel fatto che il capitale globalizzato, in particolare quello finanziario, è stato molto più rapido ad internazionalizzarsi rispetto al movimento operaio e popolare dei paesi avanzati.
No, nel senso che era inevitabile che fosse così, nella misura in cui il capitale oggi è rappresentano soprattutto da uni e zeri su un computer che si spostano alla velocità della luce da un punto all’altro del mondo, mentre il lavoro è rappresentato da esseri umani in carne e ossa la cui vita è per definizione relativamente stanziale, cioè legata a un determinato territorio e a una specifica comunità.
In questo senso mi fa sempre sorridere quando sento parlare di “internazionalizzazione delle lotte” e altri slogan simili.
È ovvio che sia auspicabile un’interazione e una collaborazione tra i lavoratori di diversi paesi, ma quello di pensare che la risposta all’internazionalizzazione del capitale sia “l’internazionalizzazione delle lotte” – o più banalmente “l’internazionalizzazione della democrazia” – ha rappresentato un abbaglio di portata storica per la sinistra occidentale.
Pensare di poter competere con il capitale a livello internazionale è semplicemente assurdo, nella misura in cui questo presupporrebbe la costruzione di istituzioni politiche democratiche globali capaci di governare i processi capitalistici a livello, appunto, mondiale.
Si tratta di una pia illusione.
L’esempio dell’Unione Europea dimostra come sia impossibile costruire strumenti di controllo democratico anche solo a livello “regionale”, figuriamoci a livello globale. Dimostra anzi che i processi di sovranazionalizzazione, o di mondializzazione che dir si voglia (con cui non intendiamo semplicemente l’internazionalizzazione dei processi produttivi ma la creazione di strutture, organismi e agenzie sovranazionali, di cui l’UE è l’esempio più lampante), abbiano avuto come obiettivo precisamente quello di scardinare le democrazie nazionali e dunque di ridurre la capacità dei cittadini di controllare e regolare il capitale.
Il fatto che la sinistra, con poche eccezioni, abbia avallato – e continui ad avallare – questi processi in nome di un astratto “cosmopolitismo” rappresenta una delle grandi tragedie del nostro tempo.
Bisogna dunque ripartire dall’ovvietà per cui il conflitto capitale-lavoro non è e non potrà mai essere uno scontro tra due “internazionalismi”, o meglio tra due globalismi, quello del capitale e quello del lavoro, ma assume inevitabilmente la forma di uno scontro tra la logica intrinsecamente globale dell’accumulazione capitalistica da un lato e la logica intrinsecamente territoriale del lavoro dall’altro.
Per citare David Harvey, «il conflitto assume inevitabilmente la forma dello scontro fra flussi del capitale e luoghi dell’autoproduzione dei mondi vitali».
È per questo che innumerevoli lotte sociali e di classe si combattono attorno alla formazione dei luoghi, i quali «sono i paesaggi dove si svolge la vita quotidiana, si stabiliscono i rapporti affettivi e le solidarietà sociali e dove si costruiscono le soggettività politiche e i significati simbolici».
Da ciò ne consegue che l’obiezione più ricorrente al “sovranismo di sinistra” – ossia quella secondo cui, nel contesto dell’attuale sistema capitalistico globalizzato, qualunque tentativo di un singolo stato di resistere alla logica capitalistica sarebbe velleitario – risulta del tutto infondata a mio avviso.
Al contrario, ancora oggi lo Stato nazionale è l’unico strumento a diposizione dei popoli capace di resistere all’illimitata estensione geografica del dominio capitalistico, non solo per il fatto di essere democratizzabile, a differenza delle istituzioni sovranazionali, ma anche per il fatto di essere espressione di una specifica comunità territoriale, e dunque di permettere ai vari popoli e alle varie comunità di resistere al dominio capitalistico secondo le proprie modalità e specificità.
Questo non implica affatto l’abbandono di una prospettiva internazionalista, ma vuol dire avere ben chiara la distinzione tra cosmopolitismo di sinistra – cioè l’idea per cui la lotta di classe si rivela in ultima istanza lo strumento per realizzare il trionfo dell’individuo razionale universale, indipendentemente dalle sue radici culturali, storiche ecc. – e reale internazionalismo, che dovrebbe invece fondarsi sulla relazione fra comunità diverse che si riconoscono reciprocamente quali portatrici di forme di vita legittime.
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