Com’è stato possibile che in questi ultimi anni la sinistra sia diventata propugnatrice delle tesi open border, nate all’interno dei circoli anarco-capitalisti e da sempre sostenute dai think tank della destra economica radicale? Come può non rendersi conto che la libertà di migrare, lungi dall’essere un diritto inviolabile dell’uomo, non è altro che una delle quattro libertà fondamentali di circolazione alla base della dottrina economica neoclassica – nello specifico quella della forza lavoro – e che come tale viene fortemente sostenuta proprio dal grande business? Questo lungo articolo tratto da American Affairs, che presentiamo in due puntate, cerca di spiegare i sommovimenti storici e culturali – che gettano come sempre le radici nella svolta reazionaria neoliberale degli anni ’80, innescata dalle politiche di Reagan e della Tatcher – che hanno prodotto questa mutazione antropologica della sinistra, passata dalle tradizionali posizione anti-immigrazioniste legate al movimento operaio e sindacale all’accettazione dogmaticamente moralistica dei confini aperti.
di Angela Nagle
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Prima del “Costruite il muro!”, c’era il “Butti giù questo muro!”. Nel suo famoso discorso del 1987, Ronald Regan chiese che la “cicatrice” del Muro di Berlino fosse cancellata e ribadì che l’oltraggiosa restrizione alla circolazione che esso rappresentava equivaleva niente di meno che a una “questione di libertà per tutto il genere umano”. Continuò dicendo che quelli che “rifiutavano di unirsi alla comunità della libertà” sarebbero “stati superati” come risultato dell’irresistibile forza del mercato globale. E così fu. Per celebrare, Leonard Bernstein ha diretto una rappresentazione dell’”Inno alla gioia” e Roger Waters si è esibito in “The Wall”. Le barriere alla mobilità del lavoro e dei capitali crollarono in tutto il mondo; fu dichiarata la fine della storia; e seguirono decenni di globalizzazione dominata dagli Stati Uniti.
Nei suoi 29 anni di esistenza, circa 140 persone sono morte cercando di superare il Muro di Berlino. Nel mondo promesso della libertà e della prosperità economiche globali, sono morte 412 persone soltanto l’anno scorso nel tentativo di attraversare il confine tra Messico e Stati Uniti, e più di tremila sono morte l’anno prima nel Mediterraneo. Delle canzoni pop e dei film di Hollywood sulla libertà non c’è traccia. Cosa è andato storto?
Naturalmente, il progetto reaganiano non si concluse col crollo dell’Unione Sovietica. Reagan – e i suoi successori di entrambi i partiti – ha usato la stessa retorica trionfalistica per vendere lo svuotamento dei sindacati, la liberalizzazione delle banche, l’espansione delle esternalizzazioni, e la globalizzazione dei mercati lontano dal peso morto degli interessi economici nazionali.
Per questo progetto è stato centrale l’attacco neoliberale alle barriere nazionali alla circolazione della forza lavoro e dei capitali. In casa, Reagan sovrintese a una delle più significative riforme a favore dell’immigrazione nella storia americana, il “Reagan Amnesty” del 1986, che ampliò il mercato del lavoro permettendo a milioni di migranti illegali di ottenere uno status legale.
Inizialmente, i movimenti popolari che lottavano contro differenti elementi di questa visione post-Guerra Fredda insorsero da sinistra, nella forma di movimenti anti-globalizzazione e successivamente di Occupy Wall Street. Ma, mancando del potere negoziale per sfidare il capitale internazionale, questi movimenti di protesta non si risolsero in nulla. Il sistema economico globalizzato e finanziarizzato ha tenuto nonostante tutte le devastazioni che ha provocato, anche durante la crisi finanziaria del 2008.
Oggi, il movimento anti-globalizzazione di gran lunga più visibile ha preso la forma di una forte reazione contro i migranti, guidata da Donald Trump e altri “populisti”. La sinistra, nel frattempo, non sembra avere altre opzioni che ritrarsi inorridita dal “Muslim ban” di Trump e dalle nuove storie sull’ICE che bracca le famiglie di migranti; può soltanto reagire contro qualsiasi cosa Trump stia facendo. Se Trump è a favore dei controlli sull’immigrazione, la sinistra chiederà l’opposto. E così oggi i discorsi sui “confini aperti” sono entrati nel dibattito liberale mainstream, quando una volta erano confinati ai think tank radicali del libero mercato e ai circoli anarco-libertari.
Anche se nessun importante partito politico di sinistra sta offrendo proposte concrete per una società realmente senza confini, accogliendo gli argomenti morali della sinistra open-border e gli argomenti economici dei think tank del libero mercato, la sinistra si è messa all’angolo. Se “nessun essere umano è illegale!”, come affermano i canti di protesta, la sinistra sta implicitamente accettando la tesi morale a favore di nessuna frontiera o sovranità nazionale. Ma quali implicazioni avrà l’immigrazione illimitata su progetti come la sanità e l’educazione pubbliche universali, o la garanzia dei lavori federali? E come potranno i progressisti spiegare questi obiettivi in modo convincente all’opinione pubblica?
Durante la campagna delle primarie democratiche del 2016, quando il redattore di Vox Ezra Klein suggerì le politiche open border a Bernie Sanders, il senatore com’è noto dimostrò la sua età rispondendo: “Confini aperti? No. Quella è una proposta dei fratelli Koch” [1]. Questo per un attimo portò confusione nella narrazione ufficiale, e Sanders fu velocemente accusato di “parlare come Donald Trump”. Sotto le differenze generazionali rivelate da questo scambio, in ogni caso, c’è un tema più grande. La distruzione e l’abbandono delle politiche del lavoro implicano che, al momento, i temi dell’immigrazione possano essere messi in scena soltanto all’interno della cornice di una cultura di guerra, combattuta interamente sul terreno morale. Nelle intense emozioni del dibattito pubblico americano sulla migrazione, prevale una semplice dicotomia morale e politica. È “di destra” essere “contro l’immigrazione” e “di sinistra” essere “a favore dell’immigrazione”. Ma l’economia della migrazione racconta una storia diversa.
GLI UTILI IDIOTI
La trasformazione della posizione open border in una posizione di “sinistra” è un fenomeno del tutto nuovo ed è in contrasto con la storia della sinistra organizzata in diversi modi fondamentali. I confini aperti sono da lungo tempo un grido di battaglia per la destra degli affari e del libero mercato. Attingendo da economisti neoclassici, questi gruppi hanno sostenuto la liberalizzazione della migrazione sulla base della razionalità del mercato e della libertà economica. Si oppongono ai limiti alla migrazione per le stesse ragioni per cui si oppongono alle restrizioni sui movimenti di capitali. Il Cato Institute, finanziato dai Koch, che promuove anche l’abolizione delle restrizioni legali sul lavoro minorile, ha prodotto una difesa radicale delle frontiere aperte per decenni, sostenendo che il sostegno alle frontiere aperte è un principio fondamentale del libertarismo e “Dimenticate il muro, è già tempo che gli Stati Uniti abbiano confini aperti” [2]. L’Adam Smith Institute ha fatto lo stesso, sostenendo che “le restrizioni all’immigrazione ci rendono più poveri” [3].
Seguendo Reagan e figure come Milton Friedman, George W. Bush ha sostenuto la liberalizzazione della migrazione prima, durante e dopo la sua presidenza. Grover Norquist, zelante difensore dei tagli fiscali di Trump (e di Bush e di Reagan), per anni si è scagliato contro l’intolleranza dei sindacati, ricordandoci che “l’ostilità verso l’immigrazione è stata tradizionalmente una causa sindacale” [4].
Non ha torto. Dalla prima legge che limitava l’immigrazione nel 1882 a Cesar Chavez e ai famosi lavoratori multietnici della United Farm che protestavano contro l’uso e l’incoraggiamento, da parte dei datori di lavoro, dell’emigrazione illegale nel 1969, i sindacati si sono spesso opposti alla migrazione di massa. Videro l’importazione deliberata di lavoratori illegali a basso salario come un indebolimento del potere contrattuale della forza lavoro e come forma di sfruttamento. Non c’è modo di aggirare il fatto che il potere dei sindacati dipende per definizione dalla loro capacità di limitare e ritirare l’offerta di lavoro, cosa che diventa impossibile se un’intera forza lavoro può essere sostituita facilmente ed economicamente. Le frontiere aperte e l’immigrazione di massa sono una vittoria per i padroni.
E i padroni la supportano quasi universalmente. Il think tank e organizzazione di lobbying di Mark Zuckerberg, Forward, che promuove la liberalizzazione delle politiche migratorie, elenca tra i suoi “fondatori e finanziatori” Eric Schmidt e Bill Gates, nonché amministratori delegati e dirigenti di YouTube, Dropbox, Airbnb, Netflix, Groupon, Walmart , Yahoo, Lyft, Instagram e molti altri. La ricchezza personale cumulata rappresentata da questa lista è sufficiente a influenzare pesantemente la maggior parte delle istituzioni di governo e dei parlamenti, se non a comprarli del tutto. Sebbene spesso celebrati dai progressisti, le motivazioni di questi miliardari “liberali” sono chiare. Non dovrebbe sorprendere la loro generosità verso i repubblicani dogmaticamente schierati contro il lavoro, come Jeff Flake della famosa “Gang of Eight“.
Certo, l’opposizione sindacale alla migrazione di massa nelle epoche precedenti è stata a volte mescolata con il razzismo (che era presente in tutta la società americana). Ciò che viene omesso nei tentativi dei libertari di diffamare i sindacati come “i veri razzisti”, tuttavia, è che ai tempi dei sindacati forti, questi erano in grado di usare il loro potere anche per organizzare campagne di solidarietà internazionale con i movimenti dei lavoratori in tutto il mondo. I sindacati hanno aumentato i salari di milioni di membri non bianchi, mentre oggi si stima che la de-sindacalizzazione costi ai maschi neri americani 50 dollari a settimana [5].
Durante la rivoluzione neoliberale di Reagan, il potere sindacale subì un duro colpo dal quale non si è mai più ripreso e i salari sono rimasti fermi per decenni. Sotto questa pressione, la sinistra stessa ha subito una trasformazione. In assenza di un potente movimento operaio, è rimasta radicale nella sfera della cultura e della libertà individuale, ma può offrire poco più di proteste inoffensive e appelli al noblesse oblige nella sfera dell’economia.
Con le immagini oscene di migranti a basso reddito che vengono braccati come criminali dall’ICE, di altri che affogano nel Mediterraneo, e la preoccupante crescita del sentimento anti-immigrazione in tutto il mondo, è facile capire perché la sinistra vuole impedire che i migranti illegali diventino bersagli e vittime. E con ragione. Ma agendo sulla base del giusto impulso morale a difendere la dignità umana dei migranti, la sinistra ha finito per trascinare la linea del fronte troppo indietro, difendendo efficacemente lo stesso sistema di sfruttamento della migrazione.
I benintenzionati attivisti di oggi sono diventati gli “utili idioti” del grande business. Adottando la difesa dei “confini aperti” – e un feroce assolutismo morale che considera ogni limite alla migrazione come un male indicibile – qualsiasi critica al sistema di sfruttamento delle migrazioni di massa viene effettivamente respinta come bestemmia. Persino politici saldamente di sinistra, come Bernie Sanders negli Stati Uniti e Jeremy Corbyn nel Regno Unito, sono accusati di “nativismo” dai critici se riconoscono a un certo punto la legittimità delle frontiere o delle restrizioni sulla migrazione. Questo radicalismo delle frontiere aperte in definitiva giova alle élite dei paesi più potenti del mondo, indebolisce ulteriormente il lavoro organizzato, deruba il mondo in via di sviluppo di professionisti di cui ha disperato bisogno e mette i lavoratori contro i lavoratori.
Ma la sinistra non ha bisogno di credermi sulla parola. Basta chiedere a Karl Marx, la cui posizione sull’immigrazione lo farebbe bandire dalla sinistra moderna. Anche se la velocità e le dimensioni attuali dei fenomeni di migrazione sarebbero stati impensabili ai tempi di Marx, egli espresse una visione estremamente critica degli effetti della migrazione che si verificò nel diciannovesimo secolo. In una lettera a due dei suoi compagni di viaggio americani, Marx sosteneva che l’importazione di immigrati irlandesi poco pagati in Inghilterra li costringeva a una concorrenza ostile con i lavoratori inglesi. Lo vedeva come parte di un sistema di sfruttamento, che divideva la classe operaia e che rappresentava un’estensione del sistema coloniale. Scrisse:
A causa della concentrazione sempre crescente delle locazioni, l’Irlanda invia costantemente il proprio surplus umano al mercato del lavoro inglese, e quindi fa scendere i salari e riduce la posizione materiale e morale della classe operaia inglese.
E la cosa più importante di tutte! Ogni centro industriale e commerciale in Inghilterra ora possiede una classe operaia divisa in due campi ostili, proletari inglesi e proletari irlandesi. Il comune lavoratore inglese odia il lavoratore irlandese come un concorrente che abbassa il suo tenore di vita. Rispetto all’operaio irlandese, si considera membro della nazione dominante e conseguentemente diventa uno strumento dell’aristocrazia e dei capitalisti inglesi contro l’Irlanda, rafforzando così il loro dominio su se stesso. Ama i pregiudizi religiosi, sociali e nazionali contro il lavoratore irlandese. Il suo atteggiamento nei suoi confronti è molto simile a quello dei “bianchi poveri” verso i negri negli ex stati schiavisti degli Stati Uniti. L’irlandese lo ripaga con gli interessi nella propria moneta. Vede nell’operaio inglese sia il complice che lo stupido strumento dei governanti inglesi in Irlanda.
Questo antagonismo è artificialmente tenuto in vita e intensificato dalla stampa, dal pulpito, dai fumetti, in breve, da tutti i mezzi a disposizione delle classi dominanti. Questo antagonismo è il segreto dell’impotenza della classe operaia inglese, nonostante la sua organizzazione. È il segreto con cui la classe capitalista mantiene il suo potere. E quest’ultima è abbastanza consapevole di questo [6].
Marx continuava dicendo che la priorità per l’organizzazione dei lavoratori in Inghilterra era “far capire agli inglesi che per loro l’emancipazione nazionale dell’Irlanda non è una questione di giustizia astratta o di sentimento umanitario, ma la prima condizione della loro emancipazione sociale”. Qui Marx ha indicato la strada per un approccio che oggi difficilmente si trova. L’importazione di manodopera sottopagata è uno strumento di oppressione che divide i lavoratori e beneficia chi ha il potere. La risposta adeguata, quindi, non è un moralismo astratto sull’accoglienza di tutti i migranti come un atto immaginario di carità, ma piuttosto affrontare le cause profonde della migrazione nel rapporto tra le economie grandi e potenti e le economie più piccole o in via di sviluppo da cui le persone migrano.
IL COSTO UMANO DELLA GLOBALIZZAZIONE
I sostenitori delle frontiere aperte spesso trascurano i costi della migrazione di massa per i paesi in via di sviluppo. In effetti, la globalizzazione crea spesso un circolo vizioso: le politiche commerciali liberalizzate distruggono l’economia di una regione, che a sua volta porta all’emigrazione di massa da quella zona, erodendo ulteriormente il potenziale del paese di origine e deprimendo i salari per i lavoratori meno pagati nel paese di destinazione. Una delle principali cause della migrazione di manodopera dal Messico agli Stati Uniti è stata la devastazione economica e sociale causata dall’Accordo Nord Americano di Libero Scambio (NAFTA). Il NAFTA costrinse gli agricoltori messicani a competere con l’agricoltura americana, con conseguenze disastrose per il Messico. Le importazioni messicane sono raddoppiate e il Messico ha perso migliaia di allevamenti di suini e coltivatori di mais a favore della concorrenza statunitense. Quando i prezzi del caffè sono scesi al di sotto del costo di produzione, il NAFTA ha proibito l’intervento statale per mantenere a galla i coltivatori. Inoltre, alle società statunitensi è stato permesso di acquistare infrastrutture in Messico, tra cui, ad esempio, la principale linea ferroviaria nord-sud del paese. La ferrovia quindi interruppe il servizio passeggeri, determinando la decimazione della forza lavoro ferroviaria dopo aver schiacciato uno sciopero selvaggio. Nel 2002, i salari messicani erano diminuiti del 22%, anche se la produttività degli operai aumentava del 45% [7]. In regioni come Oaxaca, l’emigrazione devastò le economie e le comunità locali, mentre gli uomini emigrarono per lavorare nelle fattorie e nei macelli dell’America, lasciandosi alle spalle donne, bambini e anziani.
E che dire della consistente forza lavoro qualificata e dei colletti bianchi emigrati? Nonostante la retorica sui “paesi cesso” o sulle nazioni “che non mandano i migliori”, il prezzo della fuga di cervelli per le economie in via di sviluppo è stato enorme. Secondo le cifre del Census Bureau per il 2017, circa il 45% dei migranti che sono arrivati negli Stati Uniti dal 2010 ha un’istruzione superiore [8]. I paesi in via di sviluppo stanno lottando per far restare i propri cittadini qualificati e i professionisti, spesso istruiti con un costo elevato per le finanze pubbliche, perché economie più ricche e più grandi che dominano il mercato globale hanno la ricchezza per prenderli. Oggi il Messico è anche uno dei maggiori esportatori al mondo di professionisti istruiti, e la sua economia soffre di un persistente “deficit di occupazione qualificata”. Questa ingiustizia nello sviluppo non è certamente limitata al Messico. Secondo la rivista Foreign Policy, “ci sono più medici etiopi che praticano a Chicago oggi che in tutta l’Etiopia, un paese di 80 milioni di persone” [9]. Non è difficile capire perché le élite politiche ed economiche dei paesi più ricchi del mondo vorrebbero che il mondo “mandasse il suo meglio”, indipendentemente dalle conseguenze per il resto del mondo. Ma perché la sinistra moralista a favore dei confini aperti fornisce un volto umanitario a questo puro e semplice egoismo?
Secondo le migliori analisi dei flussi di capitali e della ricchezza globale di oggi, la globalizzazione sta arricchendo le persone più ricche dei paesi più ricchi a spese dei più poveri, e non viceversa. Alcuni lo hanno chiamato “aiuti al rovescio”. Miliardi di pagamenti di interessi sul debito passano dall’Africa alle grandi banche di Londra e New York. La grande ricchezza privata viene generata ogni anno in industrie estrattive di materie prime e attraverso l’arbitraggio del lavoro, e rimpatriata verso le nazioni ricche in cui sono basate le multinazionali. Fughe di capitali di trilioni di dollari si verificano perché le multinazionali approfittano dei paradisi fiscali e delle giurisdizioni segrete, rese possibili dalla liberalizzazione per mano dell’Organizzazione Mondiale del Commercio dei regolamenti sulla fatturazione “inefficienti per il commercio” e di altra politiche [10].
La disuguaglianza della ricchezza globale è il principale fattore di spinta che guida la migrazione di massa e la globalizzazione del capitale non può essere separata da questa materia. C’è anche l’effetto di richiamo dei datori di lavoro sfruttatori negli Stati Uniti, che cercano di trarre profitto da lavoratori non sindacalizzati e con salari bassi in settori come l’agricoltura, nonché attraverso l’importazione di una grande forza lavoro impiegatizia già addestrata in altri paesi. Il risultato netto è una popolazione stimata di undici milioni di persone che vivono illegalmente negli Stati Uniti.
(continua)
NOTE
[1] Ezra Klein, “Bernie Sanders: The Vox Conversation,” Vox, July 28, 2015.
[2] Jeffrey Miron, “Forget the Wall Already, It’s Time for the U.S. to Have Open Borders,” USA Today, July 31, 2018.
[3] Sam Bowman, “Immigration Restrictions Make Us Poorer,” Adam Smith Institute, April 13, 2011.
[4] Grover G. Norquist, “Samuel Gompers versus Reagan,” American Spectator, Sept. 25, 2013.
[5] Bhaskar Sunkara, “What’s Your Solution to Fighting Sexism and Racism? Mine Is: Unions,” Guardian, Sept. 1, 2018.
[6] David L. Wilson, “Marx on Immigration,” Monthly Review, Feb. 1, 2017.
[7] David Bacon, “Globalization and nafta Caused Migration from Mexico,” People’s World, Oct. 15, 2014.
[8] Gustavo López, Kristen Bialik, and Jynnah Radford, “Key Findings about U.S. Immigrants,” Pew Research Center, Sept. 14, 2018.
[9] Kate Tulenko, “Countries without Doctors?,” Foreign Policy, June 11, 2010.
[10]Jason Hickel, “Aid in Reverse: How Poor Countries Develop Rich Countries,” Guardian, Jan. 14, 2017.
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