Perché l’élite dell’1% del pianeta, la classe più predatoria della storia umana, è anche la più socialmente impegnata a sostenere cause nobili come salute, educazione, lotta alla fame, con la scusa di cambiare il mondo? Che cosa si nasconde dietro la rinascita della filantropia a vocazione globale? L’impegno sempre più pervasivo dei filantropi è davvero la soluzione alle sfide della contemporaneità o non è piuttosto un ambiguo e problematico effetto delle disuguaglianze strutturali che rendono la nostra epoca la più ingiusta di tutti i tempi? E che cosa è il «filantrocapitalismo», la versione più sofisticata della filantropia che da due decenni domina la scena internazionale e che si consolida oggi nel tempo di Covid19?
Sono queste, e molte altre, le domande che la giornalista Nicoletta Dentico, esperta di salute globale e cooperazione internazionale, affronta nel suo formidabile saggio-inchiesta Ricchi e buoni? Le trame oscure del filantrocapitalismo (Editrice missionaria italiana, pp. 288, euro 20, già in libreria). Si tratta del primo libro in Italia dedicato al tema del filantrocapitalismo, un’abile strategia inaugurata all’inizio del nuovo millennio da una ristretta classe di vincitori sulla scena della globalizzazione economica e finanziaria. Grazie alle donazioni erogate tramite le loro fondazioni in nome della lotta alla povertà questi imprenditori, nuovi salvatori bianchi, hanno cominciato a esercitare un’influenza sempre più incontrollata sui meccanismi di governo del mondo e sulle loro istituzioni, modificandole profondamente. Il tutto, in un intreccio di soldi, potere e alleanze con il settore del business che i governi non sanno più arginare né possono più controllare. Anzi, sono i leader del mondo politico ad accogliere i ricchi filantropi a braccia aperte, ormai, senza più fare domande.
Come è avvenuto in passato con John Rockefeller e Andrew Carnegie, la generosità di chi ha accumulato mastodontiche ricchezze rischia di non essere del tutto disinteressata. «Il Wealth-X and Arton Capital Philantrophy Report 2016 evidenzia come le donazioni dei super-ricchi siano incrementate del 3% nel 2015», scrive Dentico. «Numeri alla mano, il rapporto racconta gli effetti benefici di questa arte della generosità: gli imprenditori che hanno versato almeno un milione di dollari hanno finito per ammassare più profitti dei loro pari di classe».
Di questa realtà di costante accumulazione si nutre l’ottimismo win-win che alimenta il fenomeno filantropico, i cui valori, strumenti e metodi sono inequivocabilmente quelli della cultura di impresa, applicata al mondo dei bisogni umani disattesi. I filantropi, per loro stessa ammissione, puntano a creare nuovi mercati per i poveri. «Funziona così: se i poveri diventano consumatori non saranno più emarginati. E da clienti possono riguadagnarsi la loro dignità». Rispetto alla filantropia classica, il filantrocapitalismo ha assunto dimensioni così pervasive e sistemiche da condizionare la stessa azione degli stati: «Libere da ogni costrizione territoriale, le fondazioni filantrocapitaliste sono riuscite a occupare un campo d’azione sconfinato» si legge nel libro. «Esercitano un ruolo ingombrante nella produzione di conoscenza, nell’affermazione di modelli, nella definizione di nuove strutture della governance globale».
«Il liquido amniotico della filantropia è la disuguaglianza» sostiene Nicoletta Dentico, che nella sua poderosa inchiesta motiva accuratamente le ragioni per cui questa élite si è messa alla testa della battaglia per cambiare il mondo. Invece, «se nel mondo vigesse un’equa distribuzione delle risorse non ci sarebbe tanto spazio per la filantropia», perché non ci sarebbero più i pochi plutocrati che detengono più della metà delle risorse del pianeta. Dentico mette in luce uno degli aspetti più controversi e paradossali del fenomeno: le enormi agevolazioni fiscali di cui godono nel mondo filantropi e fondazioni, anche le più opulente: «Che cosa legittima politicamente l’idea di un incentivo sulle tasse a questi miliardari e alle loro fondazioni? Quali vantaggi ne avrebbe una società, se si utilizzasse invece la tesoreria pubblica, perduta a causa degli incentivi, per produrre il bene comune?».
Il filantrocapitalismo diventa così una strana forma di legittimazione morale, «una valvola di sfogo» tramite cui investire, detassati, i profitti spesso accumulati con flagranti operazioni di elusione o evasione fiscale. Un esempio per tutti: «Nel 2012, un rapporto del Senato americano calcolava in quasi 21 miliardi di dollari la quantità di denaro che Microsoft era riuscita a trafugare nei paradisi fiscali in un periodo di tre anni, grosso modo l’equivalente della metà dell’incasso netto delle vendite al dettaglio negli Stati Uniti, con un guadagno fiscale di 4,5 miliardi dollari annui». Oggi il fondatore di Microsoft, Bill Gates, è la figura preminente e più iconica del filantrocapitalismo, con una fondazione intitolata a lui e alla moglie Melinda che al momento della nascita (2000) disponeva di 15,5 miliardi di dollari per esercitare la propria azione, focalizzata su salute e vaccinazioni, biotecnologie, incremento della produttività agricoltura in Africa (ciò che significa far largo agli Ogm), educazione, finanza. La Fondazione Gates mantiene un forte legame finanziario con aziende assai poco virtuose sul piano dei consumi e della salute, che però garantiscono sicure remunerazioni sull’investimento: ad esempio, investe 466 milioni di dollari negli stabilimenti della Coca-Cola e 837 milioni di dollari in Walmart, la più grande catena di cibo, farmaceutici e alcolici degli Usa.
La Fondazione Gates spicca oggi per l’incontenibile attivismo con cui dirige le attività internazionali nella ricerca di un vaccino anti-coronavirus, con implicazioni non banali data la rilevanza pubblica di un’emergenza mondiale come quella di Covid-19: «Nel 2015, Gates aveva capito che un virus molto contagioso sarebbe arrivato a sconquassare il mondo iperglobalizzato. Sars-CoV-2 è arrivato, alla fine, e il mondo si è fatto trovare del tutto impreparato. L’unico pronto a un simile scenario è stato il monopolista filantropo di Seattle», spiega Dentico: 300 milioni di dollari subito sul piatto da parte della Fondazione Gates (poi saliti addirittura a 530 milioni di dollari), ormai accreditatasi sulla scena della lotta alla pandemia alla pari di istituzioni internazionali come Oms, Banca Mondiale e Commissione europea, un pericoloso precedente nella governance di fenomeni globali – come in questo caso la lotta a una pandemia. Tanto più che «in tutti questi anni, Bill Gates ha molto contribuito al rafforzamento geopolitico di Big Pharma [il cartello composto dalle principali case farmaceutiche mondiali, ndr], erodendo e sottraendo terreno alla società civile in questo duro conflitto politico».
L’implacabile inchiesta di Nicoletta Dentico scruta anche l’azione filantropica di altre figure di imprenditori plutocrati o politici potentissimi diventati improvvisamente «benefattori» globali: Ted Turner, Bill e Hillary Clinton, e i nuovi arrivati sulla scena della filantropia come Mark Zuckerberg. Unico nella sua genesi è il caso della famiglia Clinton, che ha fatto della filantropia globale – tramite la Fondazione Clinton – la via maestra per continuare a esercitare il potere dopo due mandati presidenziali, anche a costo di contraddire l’agenda diplomatica statunitense, nel momento in cui Hillary Clinton è segretaria di stato dell’amministrazione Obama. Molto eloquente a questo riguardo il caso del potentissimo uomo d’affari Frank Giustra che entra nel giro delle estrazioni minerarie in Kazakhstan grazie ai buoni uffici della Fondazione Clinton nel paese centro-asiatico, che gli Stati Uniti hanno stigmatizzato per le sistematiche violazioni dei diritti umani e delle libertà fondamentali della persona.
Come scrive Vandana Shiva nella prefazione, «il libro di Nicoletta Dentico arriva al momento giusto, ed è necessario. Sarà una bussola importante per difendere le nostre esistenze e libertà dalle forme della ricolonizzazione variamente avallate dal filantrocapitalismo».
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