di Maria Cristina Marcuzzo
Di fronte ai limiti del liberismo, Keynes pensava all’intervento pubblico soprattutto in termini di investimenti per garantire il massimo dell’occupazione, Beveridge era interessato piuttosto a trasferimenti e servizi pubblici contro le incertezze del mercato.
Il dibattito sullo Stato sociale ha una storia lunga, che risale a molto prima della nascita del Welfare State così come lo conosciamo dal secolo scorso, le cui idee ispiratrici si sono succedute in varie forme. In realtà non è facile darne una definizione precisa e univoca; possiamo dire che gli obiettivi sono genericamente quelli di sostenere il tenore di vita, ridurre le disuguaglianze, tenendo a freno la crescita dei costi, prevenendo comportamenti opportunistici e disonesti, facendo in modo che questi fini siano raggiunti contenendo le spese e gli abusi di potere da parte di chi amministra il sistema.
Il cammino che porta al perseguimento di questi obiettivi in Inghilterra comincia con le riforme del 1906-14, ma l’impegno concreto in questa direzione avviene solo con la legislazione del 1944-48, favorita dagli avvenimenti della Seconda guerra mondiale e degli anni immediatamente successivi. Una pietra miliare fu il Rapporto Beveridge (Beveridge 1942), incentrato su tre punti: a) sussidi alla famiglia; b) assistenza sanitaria, c) politiche di pieno impiego. Il sistema doveva essere amministrato centralmente e finanziato in maniera paritetica da datori di lavori, dipendenti e lo Stato, con benefici uguali e fissati a livello di sussistenza.
La novità del Piano di William Henry Beveridge consisteva nel fatto che la previdenza sociale era onnicomprensiva ed estesa a tutti: i sussidi di disoccupazione e la pensione, dopo un periodo di transizione, sarebbero stati dello stesso ammontare, indipendentemente dal livello di reddito pregresso (Beveridge 1942: 9–10).
Anche a John Maynard Keynes viene attribuito il ruolo di padre fondatore del Welfare state, a cui si associa l’idea che fu l’economista di Cambridge a fornire la giustificazione della necessità di dotare il sistema economico di un esteso settore pubblico. Le cose non stanno proprio così, su entrambe le questioni.
Il messaggio politico della sua Teoria generale dell’occupazione, interesse e moneta è il sostegno agli investimenti, da interpretare come impegno a favorire la “fiducia degli imprenditori”, e non tanto come appello a fare investimenti pubblici finanziati in disavanzo. L’insistenza di Keynes sul sostegno agli investimenti, invece che su una politica fiscale rivolta ai consumi, mostra la preoccupazione di contenere il disavanzo, e l’importanza data agli incentivi di mercato. Nella Teoria Generale tutto questo è detto chiaramente:
“Se lo Stato è in grado di determinare l’ammontare aggregato di risorse destinate all’aumento dei mezzi di produzione e il tasso base della remunerazione di coloro che li posseggono, avrà fatto tutto ciò che serve”
(Keynes CWK VII: 378, tr. it: 432-3).
È interessante chiederci quali siano le differenze tra gli approcci di Beveridge e di Keynes per contrastare l’instabilità e l’insicurezza generate ciclicamente dall’economia di mercato. Nel fare questo confronto emergono alcuni paradossi, del resto sottolineati dai biografi di entrambi i protagonisti. Skidelsky spiega come Keynes fosse poco interessato allo schema di previdenza sociale per come veniva proposto da Beveridge, perché a dire del suo biografo “Keynes non era mai stato un vero e appassionato riformatore sociale” (Skidelsky 2000: 265). La sua convinzione sulla necessità dell’intervento pubblico si richiamava a una teoria sociale improntata ad una visione più conservatrice di quella Beveridge. Però gli interessava che “il Tesoro potesse permetterselo” (ibid: 270).
Passando a Beveridge, anche qui c’è un aspetto interessante da notare, perché egli sviluppò le sue idee in maniera indipendente e, per quanto riguarda la piena occupazione, in opposizione a quelle di Keynes (Marcuzzo 2010). Il paradosso qui è che le proposte di Beveridge in materia di previdenza sociale si ispiravano a una teoria economica che era proprio quella attaccata da Keynes nella Teoria Generale. Beveridge, infatti, come ci racconta la sua biografa (Harris 1997), imparò l’economia da autodidatta, studiando da solo Jevons e Marshall. Era attratto dall’economia applicata, perché era interessato ai fatti e ai numeri piuttosto che ai concetti, e alla visione del funzionamento del sistema di cui è fatta una teoria.
Tuttavia nella preparazione della sua proposta, Beveridge chiese aiuto a Keynes, che glielo diede prontamente e generosamente, come dimostra la loro corrispondenza (Marcuzzo 2005). Va detto che poco dopo Beveridge si “convertì” al keynesismo, probabilmente per l’influenza di quel gruppo di economisti progressisti, di stretta fede keynesiana, che comprendeva Joan Robinson, Nicholas Kaldor , E.F. Schumacher – a cui si era rivolto per un aiuto nell’inchiesta sulla piena occupazione – che poi divenne il libro Full Employment in a Free Society (Beveridge 1944).
Guardando al merito della seconda questione – un elevato coinvolgimento del settore pubblico nell’economia – è del tutto chiaro che Keynes non era favorevole a un sistema in cui si imponevano tasse alte per pagare sussidi e pensioni, il cui costo doveva invece, a suo dire, essere sostenuto dai datori di lavoro. Scriveva infatti:
“Non dovrebbe essere il datore di lavoro a sostenere tutti i costi necessari per mantenere il lavoratore in buona salute? Se si lasciano i disoccupati morire di fame che cosa faranno i datori di lavoro quando la domanda di lavoro, stagionale o ciclica, aumenta di nuovo? Perché dovrebbero essere i contribuenti a pagare per avere sempre disponibile un gran numero di lavoratori non qualificati?” (Keynes CWK XXVII: 224).
Inoltre Keynes riteneva che lo Stato dovesse sempre dar conto ai contribuenti delle spese sostenute per beni e servizi, associando “più strettamente possibile i costi di particolari servizi con le risorse messe loro a disposizione”, perché questo era “l’unico modo di mantenere una buona contabilità, di misurare l’efficienza, di fare economie, e di far sempre sapere al pubblico quanto i beni e i servizi costano effettivamente” (ibid.: 225). Quindi anche se apprezzava gli “aspetti nuovi” del Piano Beveridge, vale a dire “l’estensione dei benefici e dei sussidi a tutta la popolazione e non solo a chi aveva versato i contributi” (ibid.: 252), si preoccupava dell’impatto che il Piano avrebbe avuto sul bilancio dello Stato. Da un punto di vista strettamente economico era più favorevole a far sì che fossero gli “investimenti pubblici a compensare le fluttuazioni degli investimenti privati “(ibid.: 381), vedendo “gravi limiti” in qualunque piano che avesse come obiettivo solo quello di “stabilizzare il livello dei consumi durante una depressione” (ibid.: 206).
Sia a Keynes sia a Beveridge stavano a cuore i problemi morali e sociali derivanti dalla disoccupazione, ma mentre Beveridge sottolineava il fatto che la soluzione era di offrire a tutti la possibilità di assicurarsi contro le incertezze e fluttuazioni dell’attività economica, Keynes credeva che il problema non fosse quello di garantire un adeguato tenore di vita, perché in futuro non si sarebbe stata scarsità risorse materiali; bisognava solo gestirle con una buona organizzazione così che tutti avrebbero potuto avere una vita migliore. Per Beveridge si trattava della eterna battaglia dell’umanità contro la scarsità, la piaga dei cicli produttivi e della poca iniziativa imprenditoriale, imprevedibili come il clima o le calamità naturali. E vide nella previdenza sociale, fornita dallo Stato, il mezzo attraverso il quale si poteva proteggere l’individuo dall’andamento generale dell’economia. Per Keynes bisognava vincere la battaglia delle idee dell’ortodossia economica che si fidava solo dei meccanismi di mercato; bisognava riuscire a persuadere il mondo a cambiare il modo di pensare tradizionale. Puntando ad avere un futuro di prosperità economica garantito da una attiva politica di investimenti, gli individui non avrebbero più dovuto subire le privazioni derivanti dalla disoccupazione.
I due pilastri del Welfare state, la sfiducia nelle forze di mercato e quindi l’affidarsi all’intervento pubblico per garantire il massimo dell’occupazione da una parte, e la poca fiducia nel liberalismo come dottrina per raggiungere sicurezza economica e stabilità sociale dall’altra, furono formulate indipendentemente, e forse anche in maniera contrapposta. Beveridge, l’erede dei Fabiani, aveva i suoi riferimenti nella teoria economica neoclassica, mentre Keynes, l’economista rivoluzionario, credeva fosse il liberalismo riformista che andava posto a fondamento della politica sociale.
Riferimenti bibliografici
Beveridge W.B. (1942), Social Insurance and Allied Services. London: HMSO.
Beveridge, W. B. (1944), Full Employment in a Free Society. London: Allen and Unwin.
Harris J. (1997), William Beveridge. A Biography, Oxford: Clarendon Press.
Keynes J. M. 1971 –1989. The Collected Writings of John Maynard Keynes (CWK). E.A.G. Robinson and D. Moggridge (eds) London: Macmillan.
CWK VII, The General Theory of Employment, Interest, and Money, tr. it. a cura di G. La Malfa, 2019, Milano: Mondadori.
CWK XXVII, Activities 1940–1946. Shaping the Post-War World: Employment and Commodities
Marcuzzo M.C. (2005), Una nota su Keynes e Beveridge, Lettere e Commenti, 1910-1946, Economia & Lavoro xxxix, pp. 51-64.
Marcuzzo M.C. (2010), Whose Welfare State? Beveridge vs Keynes in R. Backhouse and T. Nishizawa (eds), No Wealth but Life: Welfare Economics and the Welfare State in Britain 1880-1945, Cambridge: Cambridge University Press, pp.189-206.
Skidelsky R. (2000), John Maynard Keynes, III: Fighting for Britain, 1937–1946, London: Macmillan
Tratto da:
https://sbilanciamoci.info/quale-welfare-i-progetti-contrapposti-di-keynes-e-di-beveridge/
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