Non ci rinnoviamo senza liberarci dagli interessi corporativi privati
L’affacciarsi della nuova edizione del Festival di Sanremo vede l’esplodere di polemiche su alcuni “artisti” e sull’opportunità che la manifestazione debba o meno ospitare concorrenti ritenuti discutibili per i loro atteggiamenti e contenuti.
Non mi interessa qui ripetere le cronache ed i fatti più scabrosi, che possiamo leggere su ogni superficiale ma famelico ed “informatissimo” media che si “rispetti”; oltre ai link presenti utilizzerò solo 3 articoli del Corriere della Sera per supportare alcune riflessioni.
Basta informarsi un po’ e siamo investiti dallo schifo, non ho altri termini, che i nostri ragazzi e ragazzini riescono ad ascoltare e guardare con estrema facilità.
Uno schifo che investe i testi delle canzoni, gli immancabili video, le mode, gli atteggiamenti, i messaggi più o meno occulti, un pensiero distruttivo ben preciso, anche i suicidi dei ragazzi come illustrato qui.
Il disgusto dovrebbe aumentare appena ci soffermiamo a considerare il fatto che tutto ciò è spacciato per “arte” mentre, in effetti, dovremmo considerarlo solo un prodotto dello showbiz, un articolo “industriale” da sottoporre a ben precise restrizioni, come faremmo per qualsiasi prodotto considerato non accessibile fino ad una certa età.
Sugli aspetti problematici relativi a cultura e potere rimando a questo articolo in cui tento una breve analisi sui “mali dell’era moderna”, prendendo spunto dal “caso Bibbiano”.
Tornando a noi, credo occorra una seria riflessione culturale, artistica e soprattutto politica, che investa la facilità con cui un certo tipo di “arte”, contenuti e cultura sono oggi veicolati.
Non si gridi subito alla censura, piuttosto si rifletta, occorre ben altro.
Il mondo delle corporazioni dell’industria-spettacolo sfrutta la naturale predisposizione all’arte ed alla creatività dell’essere umano sin dal momento creativo fino alla fruizione, utilizzando tutta la tecnologia e le libertà concesse di ordine tecnico, economico e politico.
A livello sociale tali libertà sono regalate alle corporazioni dalla politica stessa, senza un contraltare adeguato da parte di scuola e cultura, oggi sempre più materialiste e “tecnicizzate”, co-responsabili di quei mali dell’era moderna cui accennavo nell’articolo linkato prima.
Il nostro “habitat culturale” è così penetrato da interessi commerciali e permeato da una giurisprudenza assai funzionale agli stessi: permettiamo così al mondo dell’industria di invadere le nostre vite, l’ambito della comunicazione, della cultura, della scuola e dell’informazione.
La musica, insieme al mondo dell’immagine, sono gli ambiti che più si prestano all’opera di colonizzazione culturale delle corporazioni e del “pensiero unico” “progressista”, materialista, tecnicista, finanche “transumanista” da queste veicolato.
In particolare, il degrado dello stato della musica è uno specchio fedele della situazione appena descritta.
Proprio nell’era in cui siamo investiti da una quantità di suoni senza precedenti, a “commento”, sottofondo e “arredamento” di ogni momento, ambito e spazio, stiamo paradossalmente perdendo, anche per questi motivi, il senso della musica stessa e del suo essere unica fra le arti: astratta, eterea e “cerebrale”, matematica e fisica come nessun’altra.
A livello popolare sembra che ormai il “Rap” abbia superato negli ascolti il “Rock” e, da un punto di vista prettamente musicale, penso che non ci si debba rallegrare alla notizia: nel Rap la musica passa in second’ordine o poco più, rappresentando solo una scansione ritmica uniforme, “adatta” a fare da sottofondo, a struttura portante, a “spazio” per veicolare l’aspetto preminente, il vero messaggio “artistico” rappresentato dal testo e dai video.
Non dobbiamo farci ingannare dai tentativi di “nobilitare” il Rap per metterlo allo stesso livello del Rock: basta riflettere un attimo per rendersi conto di quanto il Rock sia aperto e tendenzialmente onnivoro di cultura musicale, capace di permeare con la sua sintesi ogni epoca e stile, dalla Classica di ogni periodo al Jazz, dalle Musiche Etniche agli esperimenti dell’Elettronica; al contrario del Rap che appena entra in scena uniforma e appiattisce, racchiude l’udito nella sua scansione-cantilena monotona e sempre uguale, strillata o meno che sia.
L’epoca d’oro della musica moderna caratterizzava il secolo scorso con innovazioni in ogni ambito, colto e meno colto, popolare ma anche più “intellettuale” che aveva comunque un cospicuo seguito, anche di massa.
I produttori degli anni ‘60/’70 lasciavano abbastanza liberi gli artisti, entrando in minima parte nei contenuti: un po’ abbacinati dalle novità artistiche, sicuramente dall’opportunità commerciale, almeno inizialmente lasciarono più o meno campo libero all’espressione.
Purtroppo la cosa non poteva durare, la fecondità creativa di quegli anni appare oggi irripetibile: via via la sete di guadagno e la scarsa sostanza culturale di molti produttori prevaleva sulla musica e sui musicisti, come ben sintetizzato qui dall’ironico Frank Zappa, un gigante della musica del secolo scorso.
La tecnologia e l’interesse economico delle corporazioni globali hanno facilmente prevalso sulla creatività e fatto sì che ogni momento dell’espressione musicale fosse permeato da business e standardizzazione, sia per chi suona sia per chi ascolta: dalla mania collezionistica e “visiva”, dall’interesse nozionistico, aneddotico, “gossipparo”, dal proliferare di tecnologia ed applicazioni atte a far “suonare” tutti, dall’uniformazione dei processi creativi e produttivi, dal moltiplicarsi di scuole in cui si insegna ad approcciarsi al suono e alla professione in maniera standardizzata: tutta la filiera della musica è così permeata da un business interessato a creare, nel minor tempo possibile, un numero sempre più alto di “artisti” e fruitori, ovviamente a discapito della qualità.
Basta indagare un po’ su YouTube e vediamo, nella migliore delle ipotesi, un marea di giovani e giovanissimi raggiungere livelli apparentemente virtuosistici che solo qualche decina d’anni fa avrebbero richiesto anni e anni di studio: l’industria della musica fa trovare la “pappa pronta” in termini di “ginnastica” strumentale, ovviamente standardizzata e carente di solide basi culturali e della necessaria, anche imprevista, sperimentazione-scoperta-assimilazione delle procedure soggettive di creatività.
Oltre a ciò ed ovviamente, se vogliamo sperare in un rinascimento culturale non dobbiamo certo guardare ai talent ed ai contest.
Espandere in questo modo la platea di fruitori e “attori” dell’universo musica ha così bloccato il “sapere” e la creatività, con la complicità di una scuola pubblica impoverita nei mezzi e nelle basi, più interessata al “tecnicismo” che ad arte e cultura.
L’invasione dell’ambito artistico-espressivo da parte delle corporazioni è stata così una conquista senza guerra, dato che l’esercito privato era già pronto ad accogliere la “sottomissione” di istituzioni che hanno firmato una resa non dichiarata della società civile, che avrebbero invece dovuto rappresentare e difendere.
Quanto sin qui esposto, credo porti solo ad una conclusione in merito alle polemiche ed ai valori/disvalori di certa cultura veicolata dai media visual-musicali: NON STIAMO PARLANDO DI ARTE MA DI PRODOTTI INDUSTRIALI DA VENDERE.
Altrimenti non si spiega come mai l’“artista” Antonio Signore (vero nome di Junior Cally), riferendosi alle polemiche relative ai suoi testi dice da un articolo del Corriere della Sera del 26 gennaio scorso: “Mi scuso, non volevo ferire nessuno”.
Credo che un vero artista mai e poi mai si scuserebbe per la sua arte, pur esplicita e provocatoria: ve lo immaginate un De André, un Fo o uno Zappa scusarsi per le loro provocazioni?
Addirittura il Cally cerca di dare una motivazione “tecnico-artistica” affermando che “…il rap ha un linguaggio descrittivo nel bene e nel male e rappresenta la cruda realtà come fosse un film”.
L’“artista” in questione ci sta dicendo che per descrivere qualcosa letteratura e cinema possono farlo solo in un modo, che non ci sono alternative… alla faccia dell’arte!
L’intento di colpire per creare scalpore e un personaggio da vendere non deve certo essere preso in considerazione… soprattutto ora che, guarda caso, è arrivato a Sanremo, dove vuol portare una canzone politicamente corretta adatta all’evento, in cui, addirittura, si critica il populismo con frecciate a Salvini e Renzi.
Redento! Miracolo dell’arte!
Veniamo all’altra grande “artista”, Billie Eilish, oggetto del primo articolo linkato sopra sui crescenti suicidi di adolescenti che ascoltano la sua “musica” e roba del genere: praticamente un “genio” che a 18 anni ha vinto le principali categorie dei Grammy, gli Oscar della musica, un record alla sua età.
Questo il suo messaggio culturale relativo al premio e con cui esordisce l’articolo del Corriere del 28 gennaio: “È un premio per tutti i bambini che oggi fanno musica nella loro camera da letto: pensate che ne otterrete uno”.
Praticamente una minaccia.
L’articolo, dopo aver riportato che Dave Grohl l’avrebbe paragonata ai Nirvana, ci spiega la caratura dell’“artista” così: “… del resto lei è l’opposto della cantante patinata e photoshoppata che riempie le vetrine di Instagram; autentica come nel video di Bad Guy in cui si presenta togliendosi l’apparecchio per i denti … ”.
Guardate i suoi video, è certamente “autentica”, non costruita, non mediata… un genio artistico!
Sempre dall’articolo scopriamo che dietro di lei c’è il fratello più grande di 4 anni, nelle vesti di co-autore e produttore, sicuramente un altro “genio”: “Ha iniziato a scrivere canzoni a 12 anni e la sua cifra stilistica ha lasciato una chiara impronta nei lavori di Billie Eilish, un pop gotico e dark nei suoni nei testi che affrontano temi come l’angoscia che anima l’esercito di adolescenti che ci circonda … i pensieri negativi e suicidi che sono anche la pasta emotiva di moltissimi ragazzi che si possono riconoscere nella differenza universale di Billie Eilish, nei suoi vestiti extralarge e nei suoi capelli colorati…”.
Come mai all’articolista non passa per la mente una possibile correlazione fra i comportamenti dei ragazzi e la cultura propagata dalle corporazioni commerciali e da un sistema culturale ed economico che sta distruggendo la famiglia e “costringendo” i giovani fra le braccia delle applicazioni tecnologiche?
E veniamo all’altra grande “artista” stavolta battuta dalla ragazzina Eilish ma pur sempre al top delle vendite, icona di stile e bellezza ora sulle cronache per un film documentario sulle sue “difficoltà” dal titolo: “Taylor Swift: Miss Americana”, presentato al Sundance, il famoso festival del cinema indipendente.
Premetto subito che siamo in ambito Pop, c’è sicuramente più musica e arrangiamento rispetto al Rap, e ci vuol poco; non capisco l’inglese a sufficienza ma i suoi video sono molto colorati, arcobaleno e “gender-friendly”, probabilmente “politicamente corretti” e in linea con il “pensiero unico dominante gender fluido”.
Dall’articolo apprendiamo che “Il New York Times la definisce ‘una delle migliori autrici del pop, il personaggio più dotato di senso pratico della scena country e più in contatto con la propria vita interiore rispetto alla maggior parte degli adulti’”.
Non c’è che dire, una grande definizione “artistica”, accompagnata da valutazione “psichiatrica” per noi comuni mortali: la tipa sarebbe un po’ nuova Woody Allen e un po’ Gordon Gekko!
Vediamo i suoi “contenuti artistici”, con cui inizia perentoriamente l’articolo del Corriere del 26 gennaio, intitolato “L’Insostenibile bellezza di Taylor”: “’C’è sempre qualche standard di bellezza a cui non si corrisponde. Perché se sei abbastanza magra, allora non hai il sedere che tutti desiderano, ma se hai abbastanza peso per avere un bel sedere, allora il tuo stomaco non è abbastanza piatto. È semplicemente impossibile. … Non mi fa bene vedere mie foto ogni giorno … ho visto una foto in cui sembrava che avessi troppa pancia, o qualcuno ha detto che sembravo incinta e questo mi ha fatto scattare qualcosa: mi ha spinta ad affamarmi – a smettere di mangiare’. … In ‘Miss Americana’ … racconta per la prima volta il suo ‘periodo 34’, dove 34 sta per la taglia – oggi è una 42 –, quando viveva in ‘una vera e propria spirale di vergogna e odio’. Di sé, ovviamente”.
Tutto molto artistico, sicuramente.
L’articolo continua parlando del film-documentario sulla carriera dell’“artista” e della sua “… presa di coscienza ‘politica’, scaturita dalla denuncia e dal processo al dj che durante un evento pubblico l’aveva molestata … Il processo le ha dato ragione ma l’ha lasciata con la consapevolezza che senza la possibilità di pagare un buon avvocato è difficile ottenere giustizia”.
Forse a questo si riferiva il NYT con “senso pratico”… anche a me piacerebbe permettermi uno studio di avvocati di primo piano che mi difenda come cittadino!
Miracoli di chi è “segnato” dall’“arte”!
Ovviamente l’articolo del Corriere non va oltre la cronaca, senza porsi interrogativi sul sistema “industria-spettacolo” se non funzionali a livello politico, come vedremo, anche perché l’“artista” serve perfettamente a sostenere il “pensiero unico politicamente corretto”, che fa tanto comodo alle corporazioni multinazionali per fornire un minimo di “ideologia” alla globalizzazione di cui sono protagoniste.
Infatti, l’autrice dell’articolo termina confermando quanto affermo partendo dall’evento processuale che ha coinvolto la cantante, anche cercando di riportarla sulla terra: “Da qui viene anche la scelta di prendere la parola a favore dei diritti delle donne e delle persone lgbt e contro i conservatori alla Donald Trump. I dirigenti discografici e perfino suo padre all’inizio si sono opposti: Swift ricorda il vertice in cui le hanno detto che era ‘una bella ragazza’ e che quindi la gente non voleva sentire le ‘opinioni’. È noto il ruolo che ideali di bellezza insostenibili giocano nei disturbi alimentari. Che sia impossibile per le ragazze ‘normali’ apparire come le star – per le quali la cura dell’aspetto fisico fa parte del lavoro – è scontato. Fa più effetto scoprire che sono ‘impossibili’ anche per una pop-star. Taylor Swift dimostra che dalle gabbie imposte alle donne è possibile uscire”.
L’“artista” insomma esce “immacolata” da un meccanismo sforna star, in cui credo non sia stata obbligata ad entrare ma che l’ha resa milionaria e, con molto “senso pratico”, costruisce sul suo “calvario umano e professionale” il suo personaggio ed i suoi contenuti “artistici”.
Stiamo parlando di una figura che la rivista “Forbes” considera una delle celebrità più pagate al mondo, con un patrimonio stimato intorno ai 360 milioni di dollari.
Insomma, ci troviamo, come al solito e alla stessa stregua della “politica-spettacolo”, di fronte allo stesso schema: qui l’“artista” diventato famoso grazie al sistema sfrutta le contraddizioni del sistema stesso per nutrire un “contenuto artistico”, totalmente funzionale al sistema industriale che l’ha creato.
Idem per la politica: le crisi del sistema globalizzato servono ad alimentare il sistema stesso che si approfitta dell’ignoranza culturale indotta dall’impoverimento della scuola pubblica e da teorie socio-economiche distorte, e sfrutta la paura del futuro propagata dai media di sistema, dovuta alla fine dello Stato di diritto ormai non più sovrano e non più in grado di rappresentare e difendere i suoi cittadini.
Il sistema corporativo privato fornisce quindi tutte le coordinate ed i mezzi per creare, crescere e globalizzare fenomeni “artistici”, culturali e politici iniettati delle stesse “droghe sistemiche”, da vendere ad un pubblico completamente nutrito, impaurito e distratto dal solerte lavoro dei media di sistema.
Questa é la situazione: i media autori della narrazione dominante e dominata dalle contraddizioni di un sistema in mano alle corporazioni private, le stesse che li posseggono, riescono facilmente ad operare un gigantesco corto circuito in cui causa ed effetto, azione e reazione creano le condizioni per cui il sistema e la sua narrazione si autoalimenti all’infinito.
L’ultima prova l’abbiamo in questo lancio di agenzia, che ci informa come anche Famiglia Cristiana sdogani Junior Cally con ipocrite considerazioni, senza mai mettere in discussione l’operato delle corporazioni globali e della politica che ne cura gli interessi.
Quindi, per concludere e tirare le fila del ragionamento: non dobbiamo cedere alle paure indotte da chi grida alla “censura” appena si pretende di riflettere senza veli ed ipocrisie.
Allo stesso modo, non dobbiamo cedere alla paura di chi invoca censura perdendo così ogni ragione.
È il sistema ad essere esperto di paura, cadendo nel suo vortice perdiamo ragione e dignità, le qualità necessarie a reclamare e costruire una società più a misura d’uomo, dei diritti umani che ci appartengono e di uno Stato di diritto da ricostruire per fermare la conquista corporativa delle nostre vite.
Dobbiamo quindi capire che stiamo parlando di “prodotti industriali” su cui la società civile ha tutto il diritto di legiferare, per ricondurli all’ambito commerciale che gli è proprio.
Liberiamo musica, arte e cultura dall’abbraccio mortale delle corporazioni tecnologiche per rimetterle in mano al cittadino, tramite una scuola rinnovata e potenziata, degli spazi di vita e sociali adatti e sufficienti ad attuare i diritti umani alla libertà di pensiero, coscienza, opinione, informazione ed espressione, alla libertà di associazione, al lavoro, allo svago ed al riposo, alla libera partecipazione alla vita culturale, artistica e sociale, nel pieno rispetto di ogni individuo che rispetti la libertà e la dignità altrui: vedrete che non avremo bisogno di ragionare e perder tempo con “fenomeni artistici” assai discutibili.
https://www.massimofranceschiniblog.it/, 1 febbraio 2020
fonte immagine: Pixnio
il mio libro, un programma politico ispirato ai diritti umani
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