di Francesco Carraro
I giorni grami che stiamo vivendo hanno improvvisamente ridestato l’interesse popolare per il tema della moneta. Oggi più che mai ce n’è bisogno e ce n’è bisogno sempre di più. E allora, come al solito, andiamo col cappello in mano a Bruxelles, dalla Von der Leyen, oppure a Francoforte, dalla Lagarde, a chiedere “risorse” fresche. E La Lagarde, giustamente, ci risponde di andare a farci un giro perché Sua Maestà, ai sensi dell’articolo 123, comma 1 del Trattato di Lisbona non può finanziare direttamente gli Stati. E la Von der Leyen, a sua volta, ci manda a farci un altro bel giro (e pure largo largo) perché, nella UE, la competenza esclusiva, in materia di politica monetaria, è della Banca Centrale Europea, ai sensi dell’articolo 3 del TFUE: ping-pong, ping-pong.
Oppure, in subordine, la Ursula ci offre flessibilità “in deroga” al Fiscal Compact: cioè ci fa indebitare un po’ di più in attesa di farci rientrare nei ranghi quando la crisi sarà finita e potrà, così, imporci di ridurre il debito con il consolidamento fiscale (nuove tasse) o con il contenimento di spesa (austerity). Ecco allora che il pissi pissi bao bao del popolo, giustamente incazzato, si trasforma in un fiume in piena di giustificato risentimento. E a qualcuno viene in mente (anzi torna in mente) un’idea meravigliosa: facciamoci una moneta complementare, tutta italiana e tutta per gli italiani.
A questo punto, si impone una seria riflessione giuridica. Ho detto “giuridica”, non economica, non finanziaria, non di opportunità e neanche da Bar Sport. I discorsi “limitrofi” al perimetro della legge, per così dire, li lasciamo, per il momento, ai grandi economisti (ne abbiamo a bizzeffe) o ai milioni di “commissari tecnici” di cui pullula questo Paese. Concentriamoci solo sull’aspetto squisitamente legale, allora. Può l’Italia emettere una nuova moneta parallela all’euro, senza violare i trattati? Perché di questo stiamo parlando: farlo adesso, farlo subito. Senza dover aspettare la “Rivoluzione francese” in salsa tricolore, che non arriva mai. Ebbene, la risposta deve essere senz’altro positiva. Ecco perché.
Innanzitutto, una premessa metodologica e semantica, per quanto superflua. In tutti i trattati non troverete mai l’espressione “unica moneta”, bensì “moneta unica”. C’è una sostanziale differenza: la prima costituirebbe la sola ed unica moneta consentita in una certa area. La seconda rappresenta invece la moneta “unica” di un gruppo di Stati, da intendersi, quindi, come la “sola” moneta riconosciuta alla stregua di “condivisa”, “uguale” per tutti e “spendibile” in ciascuna delle Nazioni coinvolte. Ma non è questo, sia chiaro, l’argomento dirimente.
Piuttosto, andiamo ad esaminare in cosa si concretizzi la famosa “moneta unica” detta “euro”. Ce lo spiega l’articolo 128 del Trattato di Lisbona. Essa può materializzarsi in due tipologie (secondo il citato articolo): banconote dette euro (disciplinate dal primo comma) e monete metalliche (disciplinate dal secondo comma). Le banconote sono quello strumento di pagamento cartaceo colorato che abbiamo tutti nel portafoglio: recano il logo della BCE e appartengono, stando a quanto lorsignori ci dicono, all’Eurosistema. Le può emettere solo la BCE oppure una banca centrale nazionale (degli Stati dell’eurozona) su autorizzazione della BCE. Queste “banconote” costituiscono le uniche “banconote” aventi corso legale nell’Unione.
Cosa vuole dire “a corso legale”? Uno strumento di pagamento è a “corso legale” quando, in un dato territorio, nessuno dei consociati può rifiutarsi di accettarlo perché l’autorità ne impone la circolazione. Quindi, nell’eurozona, se voi pagate con banconote in euro un venditore – o chiunque vi presti un qualsiasi servizio – costui non può rifiutarsi di acconsentire al vostro pagamento (a meno che non si tratti di denaro palesemente falso).
Questo è un primo aspetto fondamentale e quindi va ripetuto con una bella sottolineatura (sotto forma di aperte virgolette, chiuse virgolette): la “banconota” in euro è l’unica “banconota” a corso legale nell’eurozona. Abbiamo messo la parola “banconota” tra virgolette per far capire che si tratta di un mezzo di pagamento (ben preciso e cartaceo) emesso da una “Banca” centrale, non da uno “Stato”. Veniamo ora alle monetine in euro. Queste, al contrario delle banconote, non sono emesse dalla BCE, ma coniate dai singoli Stati. Per intenderci, tutti gli spiccioli che avete nel borsellino sono stati “fusi” dalla zecca dello Stato italiano oppure di qualche altro degli Stati dell’eurozona: ne riconoscete la provenienza da una minuscolo acronimo (nel caso degli euro coniati in Italia, esso è RI: Repubblica Italiana). Tuttavia, lo Stato non può “farne” quanta ne vuole, di tale ferraglia. Ha bisogno della approvazione, quanto al volume di conio, da parte della BCE (art. 128, secondo comma TFUE). Aperta parentesi: la Germania, negli ultimi anni, ne ha prodotte una caterva rispetto a noi di monete (a costo quasi zero e con signoraggio percepito tutto dallo Stato), ma non importa. Il fatto che i tedeschi, almeno in materia monetaria ed europea, siano più furbi degli italiani, ormai lo sanno anche i sassi.
Semmai, ora la domanda diventa: e se lo Stato italiano decidesse di emettere uno strumento di pagamento diverso da una “Banconota”, cioè un “Biglietto di Stato”, potrebbe farlo? Da un punto di vista pratico e giuridico, s’intende. Dal punto di vista pratico, la risposta ce la fornisce la storia. L’Italia, ai tempi della Lira, fece un esperimento in tal senso; semplicemente esercitando il più classico potere di uno Stato sovrano: quello legislativo. Con legge numero 171 del 31 marzo 1966, infatti (Presidente del Consiglio: Aldo Moro), la Repubblica autorizzò se stessa ad emettere “biglietti di Stato” (di valore nominale 500 lire) che entrarono in circolazione accanto alle “banconote”, sempre di valore nominale 500 lire, emesse dalla Banca d’Italia.
Più precisamente, la realizzazione pratica (del precetto di tale norma di rango primario) venne data attraverso due regolamenti attuativi che consentirono la stampa di biglietti serie “Mercurio” e “Aretusa” da 500 Lire: il DPR 20.06.1966 e il DPR 20.10.1967 per le 500 lire serie “Aretusa” e il DPR 14.02.1974 per le 500 Lire serie “Mercurio”. Ciò dimostra, inoppugnabilmente, che una moneta “statale” può tranquillamente convivere con una moneta di provenienza “bancaria”. La differenza la sanno tutti: la prima “nasce” senza debito, la seconda, invece, sorge ab initio indebitando lo Stato, il quale deve emettere e cedere in garanzia titoli del debito pubblico onde ottenere (dalla propria banca centrale) la “liquidità” desiderata. Ed è il motivo per cui, in genere, il debito pubblico degli Stati, in valore assoluto, tende inesorabilmente ad aumentare. Il problema, poi, diventa esponenziale se la Banca Centrale non è più un istituto che “risponde” allo Stato (come Bankitalia, quantomeno fino al fatidico “divorzio” dal Ministero del Tesoro del 1981), ma una “entità” straniera (come la BCE) cui è addirittura proibito “per legge” di finanziare il debito pubblico dello Stato.
“Eh, ma oggi c’è la BCE” – ti obbietta il saputone – “e la BCE è una banca centrale indipendente pura e ha la governance esclusiva della politica monetaria nell’area euro”. Obiezione da rispedire al mittente, “codici alla mano”. Infatti, va rimarcato che i biglietti di Stato di cui sopra possono tranquillamente convivere con un sistema dove esiste una Banca Centrale indipendente pura nonché titolare esclusiva della governance della politica monetaria di un Paese (come è oggi, a tutti gli effetti, la BCE). Lo dimostra, inconfutabilmente, il fatto che la legge del 1965 rimase in vigore anche “dopo” che fu approvata la legge 7 febbraio 1992, n. 82 (“Modificazioni alle procedure stabilite dal testo unico sugli istituti di emissione e sulla circolazione dei biglietti di banca”); la legge 82 del 1992 è il provvedimento normativo con cui si attribuì – nello stesso giorno della firma del trattato di Maastricht! – il diritto-potere esclusivo a Bankitalia di determinare il tasso di sconto del denaro senza doversi interfacciare con il Ministero del Tesoro.
Per la precisione, la legge 171 del 1965 rimase in vigore fino al 1998, quando fu abrogata per effetto del decreto legislativo del 10 marzo di quell’anno, il numero 43. Cerimonieri d’eccezione, due nostre vecchie conoscenze: Presidente della Repubblica era Oscar Luigi Scalfaro e Presidente del Consiglio, Romano Prodi. Ciò avvenne, non a caso, a ridosso dell’entrata a regime dell’euro sui mercati finanziari (primo gennaio 1999). Cionondimeno, l’abrogazione di una legge dello Stato italiano, da parte del Parlamento italiano, non impedisce, di per sé, allo stesso Stato italiano di ri-emanare una legge identica a quella abrogata. È solo una questione di “volontà” politica, non di “possibilità” giuridica. A maggior ragione ove si consideri che – proprio a cavallo tra l’esordio dell’euro sui mercati finanziari (primo gennaio 1999, abbiamo detto) e lo “zampillare” dell’euro dalle nostre tasche (primo gennaio 2002) – il Parlamento italiano, con legge costituzionale del 18 ottobre 2001, n. 3, riformò l’articolo 117 della Costituzione: scrivendo, nero su bianco, che lo Stato (sia pur nel rispetto dei vincoli derivanti dai trattati internazionali) ha esclusiva competenza in materia di “moneta”.
L’unico dubbio residuo sul tappeto potrebbe quindi essere il seguente: eventuali nuovi “biglietti di Stato” (come quelli famosi di Moro, per intenderci) sarebbero compatibili con il Trattato di Maastricht e con quello di Lisbona? Ragioniamo: se tali “Stato-note” le concepissimo e producessimo come semplice “formato” alternativo alle monetine metalliche, la risposta sarebbe ovviamente affermativa. Già oggi lo Stato conia 1 euro, 2 euro e i vari centesimi. Che lo faccia sotto forma di moneta metallica piuttosto che sotto forma di “Stato-nota” non cambierebbe granchè. Anzi, in passato (e per mere ragioni pratiche e “simboliche”) lo aveva addirittura proposto l’allora Ministro Giulio Tremonti. Ma ce ne gioveremmo davvero, e in modo significativo? No, visto che incorreremmo nella necessità della approvazione del volume di conio da parte della BCE ex art. 128, comma due di Lisbona, già citato.
Allora, facciamo un passo più in là. E se lo Stato stampasse dei “biglietti” aldilà e oltre il perimetro dell’art. 128, secondo comma? Qui dobbiamo intenderci. Innanzitutto, se si trattasse di biglietti di stato “non” a corso legale (la cui accettazione, cioè non fosse obbligatoria per i cittadini, ma solo volontaria), certamente sì. Infatti, l’articolo 128 di Lisbona attribuisce l’esclusiva alla BCE solo sulle banconote “aventi corso legale”. Le nostre “Stato note” sarebbero invece (nell’ipotesi testé prospettata) ad accettazione volontaria. Ma ciò non significa che i cittadini non le userebbero per i propri scambi. Non essere obbligati ad accettare uno strumento di pagamento non significa essere tenuti a rifiutarlo. Anzi, lo Stato potrebbe addirittura rendere appetibile una tale moneta dando ad essa valenza fiscale, cioè accettandola per il pagamento delle tasse.
Ma si potrebbe addirittura spingersi oltre, e sostenere che lo Stato potrebbe emettere “biglietti di Stato” anche “a corso legale” (cioè ad accettazione obbligatoria) purché solo entro i confini del proprio territorio. Infatti, l’articolo 128, primo comma, del Trattato di Lisbona attribuisce l’esclusiva alla BCE in materia di “banconote”, non di “Stato-note” o di biglietti di Stato, che dir si voglia. Dunque, potremmo avere due monete a corso legale sullo stesso territorio italiano: le banconote in euro (valevoli anche oltreconfine, negli altri Paesi dell’eurozona) e le “Stato-note” valevoli solo in Italia.
A questo punto, resta la questione del nome. Potrebbe – questa nuova moneta di Stato – essere chiamata “euro”? Probabilmente no, perché l’esclusiva, anche sul nome oltre che sul “mezzo”, ce l’hanno UE e BCE. Supponiamo allora di volerla chiamare “Nuova lira”. Giuridicamente, essa potrebbe “a buon diritto” circolare sul Territorio italiano senza violare i trattati e senza costringere lo Stato a bussare alle porte altrui per generare liquidità.
Due ultime precisazioni. Prima precisazione: La nuova moneta parallela all’euro sarebbe solo “domestica” (cioè usabile solo nel territorio italiano), ma non sarebbe solo cartacea. Proprio come nel caso della monetazione in euro, essa potrebbe, e dovrebbe, circolare pure sotto forma di moneta elettronica. Prescindiamo, per ragioni di sintesi, dal modo in cui potrebbe materialmente realizzarsi il relativo circuito. Ricordiamo solo che “possono emettere moneta elettronica, nel rispetto delle disposizioni ad essi applicabili, la Banca centrale europea, le banche centrali comunitarie, lo Stato italiano e gli altri Stati comunitari, le pubbliche amministrazioni statali, regionali e locali, nonché Poste Italiane” (art. 114 bis Testo Unico bancario licenziato con Decreto legislativo del primo settembre 1993, numero 385). E tanto basti, in punto di diritto.
Aggiungiamo che – ove si riproducesse la stessa proporzione oggi esistente per l’euro – avremo solo un sette per cento di “Nuove Lire” in biglietti di stato cartacei e un novantatré per cento di “Nuove Lire” in moneta elettronica. Seconda precisazione: ci sarebbero problemi pratici? La nuova lira si svaluterebbe nel rapporto di cambio con l’euro? A entrambe le domande rispondiamo affermativamente. Ci sarebbero diversi problemi pratici, come per qualsiasi soluzione innovativa, e ci sarebbe un rapporto di cambio sicuramente sfavorevole alla Nuova Lira. E tuttavia, non è questo il punto.
A noi, in questa sede, interessava dimostrare che l’introduzione di una nuova moneta collaterale (a corso legale o meno) di matrice statuale in territorio italiano è giuridicamente fattibile. Dopo di che, se questo non dovesse “volersi” fare per le resistenza/renitenza del Sistema, dei Mercati, della Finanza, dei Partner o (soprattutto) della volontà dei nostri rappresentanti in Parlamento, è una faccenda che esula dalla indagine di carattere giuridico di questo scritto.
Quel che conta è sgombrare il campo dall’alibi “legale” così declinato: non si può fare perché ci sono i trattati. Non è vero. Si può fare e sarebbe legale. Che poi “legale” non faccia per forza rima anche con “opportuno” o “conveniente”, siamo i primi a riconoscerlo. E tuttavia – ci sia consentito aggiungere – forse si approssima un’epoca in cui conteranno il coraggio e la volontà ben più rispetto all’opportunità e alla convenienza. In tempi eccezionali, sono le misure eccezionali a salvarti la pelle. Non solo: con l’opportunità e la convenienza – soprattutto quelle degli altri, più che non le nostre – abbiamo già mandato praticamente a ramengo il paese più bello del mondo.
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