Calamandrei: l’indipendenza della magistratura come fondamento di democrazia

di Massimo Jasonni

Il tema dell’autonomia della magistratura è particolarmente caro a Piero Calamandrei: lo affronta sin dal 1920, anno in cui Gentile rende alle stampe, per Vallecchi, i Discorsi di religione e in cui Calamandrei, agli albori di una fulgida carriera accademica, ricopre la cattedra di diritto giudiziario a Siena. Vi ritorna, poi, con i più celebri interventi in Assemblea costituente1. Ma vi è un articolo, pubblicato nell’autunno del 1952 su «Il Ponte», dal titolo provocatorio di Incoscienza costituzionale2, che merita una riconsiderazione particolare per i toni profetici che assume oggi circa il rapporto tra democrazia e indipendenza della magistratura.

Calamandrei parte da un consuntivo al vetriolo dei primi cinque anni di governo della Democrazia cristiana:

La maggioranza democristiana, magnitudine sua laborans, è stata portata dalla sua stessa onnipotenza schiacciante a identificare la Costituzione con sé medesima; le sorti della Costituzione colle sue proprie sorti elettorali. Padrona del governo, si è accorta che chi governa può benissimo fare a meno di tutti quei controlli costituzionali che lo spirito romantico dell’Assemblea costituente aveva sognato. La Corte costituzionale, l’indipendenza della magistratura, il referendum popolare, bellissimi temi per conferenzieri da circoli rionali; ma in pratica, intralci micidiali per chi è al potere e vuol rimanerci. E allora la conclusione, prima appena sussurrata, poi in questi ultimi tempi apertamente proclamata, è venuta da sé: non è il governo che deve adattarsi alle esigenze della Costituzione, è la Costituzione che deve conformarsi alle esigenze di questo governo. Se questo governo la preferisce così, non c’è proprio ragione di complicare con intralci costituzionali, per fortuna rimasti soltanto sulla carta, questo ingranaggio che va da sé così liscio. Questa non è la Costituzione fatta dal popolo italiano per il popolo italiano: questa è la Costituzione fatta perché la maggioranza democristiana possa continuare per omnia saecula a rimaner maggioranza.

«La costitution c’est moi»: il programma fu già enunciato trent’anni fa, si riassunse fin da allora in un motto: «Durare». È stato detto che la schiettezza di una democrazia è data dalla lealtà con cui il partito che è al potere è disposto a lasciarlo: la lealtà del giuoco democratico è soprattutto nel «saper perdere». Ma la democrazia diventa una vuota parola quando il partito che si è servito dei metodi democratici per salire al potere è disposto a violarli pur di rimanervi: il che può farsi, anche senza bisogno di mettere «fuori legge» gli oppositori, con qualche ben studiata revisione costituzionale, o anche semplicemente con qualche trucco elettorale che permetta al partito che è al potere di rimanervi anche quando nel Paese sia diventato minoranza3.

In queste parole traspare una dialettica in cui l’asprezza della polemica etico-politica si ammanta di laicissima ironia: da un lato, è la fotografia di un’Università al cui cospetto quella di adesso pare un’ombra e, d’altro lato, è la prova di un’assunzione di distanza dall’originaria formazione liberale dell’uomo, accresciuta dal fervido sodalizio con un pensatore eclettico, certo non conservatore come Aldo Capitini.

Sono passati in allora cinque anni dall’approvazione della Carta repubblicana e Calamandrei ne conclude amaramente che

tutto in questi cinque anni è rimasto immutato; […]: non si lascia una muratura a mezzo per cinque anni senza che essa cominci ad andare in rovina: sotto i venti che soffiano dalle aperture del tetto la calcina comincia a sgretolarsi; e le impalcature, abbandonate sul posto, imputridiscono sotto la pioggia4.

Nell’Elogio dei giudici scritto da un avvocato5 i ritmi e i tempi del processo penale si rispecchieranno nella geometria delle aule e nella postura del mobilio entro cui Accusa e Difesa si fronteggiano, pur sempre al cospetto di un vigile crocifisso6; qui, analogamente, emerge un dato architettonico nella struttura giuridica dell’impianto costituzionale:

la Costituzione era come un edificio monumentale […] tirato su nelle mura maestre, ma ancora mancante di qualche parete divisoria, di qualche scala interna e della cuspide. L’imprenditore, nonostante la sua buona volontà, non era riuscito, in un anno di lavoro intenso, a consegnare la costruzione finita; ma tutti sapevano che il suo successore, che trovava i materiali già ammassati nel cantiere, avrebbe potuto agevolmente, in pochi mesi, portare a compimento l’impresa secondo i disegni già approvati dal progettista7.

L’imprenditore posto sul banco degli imputati ha un nome preciso: è chi ha governato in Italia in quei primi anni del secondo dopoguerra, è la Dc. Trattasi di un’incriminazione grave, anticipatrice del giudizio con cui Pasolini, più di vent’anni dopo, contestò allo Scudocrociato un’associazione per delinquere. È la Dc che porta la responsabilità penale dell’annichilimento dei valori fondanti lo Stato erettosi sulle ceneri della guerra e del regime che condusse l’Italia alla sciagura bellica.

Se invece che in tema di mandato parlamentale si fosse veramente in tema di contratto di appalto, questo imprenditore scervellato o disonesto, che per cinque anni avesse lasciato andare in malora così il lavoro affidatogli, andrebbe incontro a brutti guai. Nessuno lo salverebbe da una condanna ai danni: e forse, poiché i muri lasciati a mezzo costituiscono un continuo pericolo di crollo, rischierebbe di andare a finire in prigione8.

La Costituzione è stata disattesa proprio da chi era tenuto ad applicarla, e sotto un duplice profilo: quello dei diritti individuali dei cittadini, civili politici e sociali, e quello dell’ordinamento della Repubblica, cioè della strutturazione degli organi con cui il potere doveva essere esercitato.

Circa i primi, Calamandrei si apre a un orizzonte liberalsocialista, precisando che quei diritti

dovevano servire a iniziare le tanto vantate «riforme di struttura economica»: quelle che promettevano ai poveri non la ricchezza, ma un po’ meno di miseria, ai disoccupati non l’elemosina, ma un po’ di lavoro […] [Le norme sono rimaste] chiuse nelle loro scatole, come misteriosi ordigni di cui si ignora l’uso (e speriamo che non s’arrugginiscano). Fanno venire in mente l’avventura di certi ospedali di provincia che, per la munificenza di un benefattore locale, hanno potuto acquistare un armamentario chirurgico ultramoderno: ma gli strumenti rimangono lì, nelle vetrine, ognuno nel suo astuccio, perché non si trova il chirurgo che li sappia adoperare9.

Circa il secondo profilo, ovvero in tema di attivazione degli organi istituzionali di gestione e di controllo, il richiamo è finalmente al principio dell’indipendenza della magistratura, con estensione della riflessione a Corte costituzionale e Csm.

Il potere giudiziario nell’ottica calamandreiana è un ordine. L’autonomia dell’ordine, quale Montesquieu e il pensiero illuministico avevano enucleato in odio dell’assolutismo regio e del confessionismo di Stato, prendeva corpo nell’istituzione di una funzione certo laica, ma non per questo privata, di capitiniane, originalissime ispirazioni religiose. “Religione”, per un verso rispettosa di una premessa idealistica gentiliana10, per altro verso fortemente debitrice di quell’idea socialista che aveva consentito a Lelio Basso di por mano all’art. 3 della Costituzione11. Lo Stato democratico ne aveva fatto una bandiera che garantiva dai ritorni di fiamma del fascismo, formulando un’immagine del magistrato sordo alle lusinghe del potere economico e politico e, pertanto, sereno, nemmeno animato da ambizioni di carriera.

Un siffatto magistrato poteva acquisire dignità solo entro una giurisdizione statuale, liberata da limiti territoriali e da influenze esterne e caratterizzata da unicità, per l’appunto, e da autonomia delle funzioni. L’indipendenza sarebbe stata garantita dall’inamovibilità dal posto, dal grado e dalla sede, e rafforzata da un’allocazione amministrativa che avrebbe consentito allineamento al principio della separazione radicale dell’universo duttile della politica dall’universo tassativo dello iuris dicere. Uffici requirenti e uffici giudicanti sarebbero stati egualmente soggetti al rigore della legge, e a nient’altro che non fosse il rigore della legge. Non venisse mai in mente a qualcuno che l’esercizio di un’azione penale potesse essere stato manzonianamente ritardato, o riposto in un cassetto, perché indirizzato contro il Conte Zio, o suoi cari.

È appena il caso di ricordare che questa alta e potrebbe dirsi “greca” rilettura della storia del nómos occidentale aveva trovato accoglimento nell’approvazione della Costituzione12. Calamandrei ne era uscito vincitore, nonostante che la Dc gli avesse contestato dissenso sull’Alleanza atlantica e preteso tradimento dello spirito liberale13; e nonostante che il Pci, allergico a ogni forma di autogoverno, avesse mostrato nel V Congresso, conclusosi nei primi del gennaio del ’46, simpatie per un sistema di reclutamento dal basso della magistratura requirente14.

Quello che in questa sede si vuole sottolineare è che quanto accade ora, nell’insipienza e nei vagabondaggi di una politica degradata, è un tragico ripetersi di ciò che accadde allora, e che Calamandrei registrò a futura memoria. Oggi si prospetta, in forza di scellerate alleanze, una separazione delle carriere giudiziarie che comporterà dipendenza della magistratura dall’Esecutivo e che determinerà violazione dello spirito e della lettera della Costituzione. Ne uscirà trionfante la corruzione.

In verità, Calamandrei avvertiva che chi è «padrone del governo», ora come allora, ha perfettamente compreso che gli afflati romantici «sognati» con l’Assemblea costituente costituiscono lacci fastidiosi, e nient’altro. «Non è il governo che deve adattarsi alle esigenze della Costituzione, ma è la Costituzione», in quest’ottica perversa, «che deve conformarsi alle esigenze di governo»15.

A questo punto Incoscienza costituzionale fa emergere la denuncia – presagio anche per futuri governi – di una tendenziale aspirazione della classe politica dominante alla cancellazione dell’indipendenza della magistratura. Cancellazione condita da un disprezzo per il suo organo di controllo, che non a caso nei nostri giorni si propone a estrazione a sorte e non per merito o per elezione dei membri togati16. Siamo a un vero e proprio crollo di democrazia:

La schiettezza di una democrazia è data dalla lealtà con cui il partito che è al potere è disposto a lasciarlo: la lealtà del giuoco democratico è soprattutto nel suo «saper perdere»17.

L’attuale governo giallo-rosso, non diversamente da quello democristo dei primi anni cinquanta, è privo di legittimazione costituzionale e popolare. La democrazia si è ridotta a parola insignificante o, se si preferisce una citazione di Einaudi, a «scatolone vuoto», che ad altro non mira se non a perpetuare il potere di chi già lo detiene.

La separazione delle carriere giudiziarie gioca nella bieca faccenda un ruolo fondamentale, perché tende a garantire o, comunque favorisce, immunità per chi siede al potere. E così offende quel principio di eguaglianza che è sinonimo di moderna democrazia e marchio indelebile della Repubblica. Qualche opinionista televisivo o politologo del viavai della stampa quotidiana – in quota rosa o non, non fa differenza – ci contesterà una trascuratezza. Avremmo omesso di dire che la crisi della democrazia rappresentativa, che lamentiamo, si giustifica con la ragione salvifica dell’impedire alla Lega di assumere il governo del paese. Ma l’obiezione non regge per almeno tre ragioni, l’una di valenza etico-politica, la seconda di carattere storico, la terza di natura politica: l’autoritarismo e il populismo non si vincono, ma al contrario si alimentano, con metodi di ribaltamento dell’assetto democratico o con un distorto uso del machiavellismo il fine giustifica i mezzi; il ricorso alla tattica della criminalizzazione (e, per ciò stesso, dell’esaltazione) del nemico è di estrazione controriformistica. Appartiene a una teologia gesuitica che indusse Pascal, nelle Provinciali, alle sublimi, celebri invettive e contro cui si batterono le costituzioni dei moderni, per definizione improntate al principio dell’alternanza delle forze politiche in gioco; gli ultimi sondaggi a sostegno di un calo elettorale di Salvini appaiono poco convincenti, quando non addirittura pilotati.

1 Cfr. A. Barbera, Calamandrei e l’ordinamento giudiziario: una battaglia su più fronti, relazione al Convegno Piero Calamandrei e la ricostruzione dello Stato democratico, Aula Magna dell’Università di Firenze, 18 febbraio 2006, ora in «Rassegna parlamentare», 2006, p. 359 ss.

2 P. Calamandrei, Incoscienza costituzionale, «Il Ponte», n. 9, settembre 1952, pp. 1177-1187. V., sul punto, nota di M. Rossi in Id., Socialismo libertario e dintorni, Firenze, Il Ponte Editore, 2017, p. 201 ss.

3 P. Calamandrei, Incoscienza costituzionale cit., p. 1180-81.

4 Ibidem, p. 1177.

5 Firenze, Le Monnier, 1935.

6 Cfr., sul punto, il nostro «La cultura laica al cospetto del crocifisso», in Id., Alle radici della laicità, Firenze, Il Ponte Editore, 20092, p. 58 ss.

7 P. Calamandrei, Incoscienza costituzionale cit., p. 1177.

8 Ibidem.

9 Ibidem, p. 1178.

10 G. Gentile, Discorsi di religione, Firenze, Vallecchi, 1920, p. 31 ss.

11 Per quanto riguarda il motivo religioso in Basso, v. Id., Scritti sul cristianesimo, a cura di G. Alberigo, Casale Monferrato, Marietti, 1983.

12 V. il nostro Ordine giudiziario e indipendenza della Magistratura nella lezione di Piero Calamandrei, in «Il Ponte on-line» (http://www.ilponterivista.com), 29 marzo 2019, ora in «Il Ponte», n. 4, luglio-agosto 2019, p. 19 ss.

13 V., sul punto, l’intervento di G. Bettiol ora in Atti dell’Assemblea Costituente cit., seduta pomeridiana del 26 novembre 1947, vol. V, p. 4115 ss.

14 Cfr. Sotto la bandiera della democrazia. Il programma del PCI approvato al V Congresso, Roma, Editori Riuniti, 1946; cfr., altresì, P. Togliatti, Discorsi alla costituente, Roma, Editori Riuniti, 1973, p. 16 ss.

15 P. Calamandrei, Incoscienza costituzionale cit., p. 11880.

16 V., sul punto, L. Pepino, La Magistratura, il Consiglio superiore, la questione morale, e L. Baiada, Autogoverno e automalgoverno, in «Il Ponte», n. 4, luglio-agosto 2019, p. 9 ss. e p. 16 ss.

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