di Claudio Belloni
La torre di Babele è un simbolo potente, denso di significati e universalmente noto. L’immaginario legato a quell’episodio è ricco di riprese e interpretazioni teologiche, filosofiche, artistiche, letterarie; vi sono poi le indagini storiche, mitologiche e archeologiche che cercano di indagare il fondamento di quel racconto. La torre di Babele non è una torre, ma il nucleo di un vasto e denso campo simbolico.
Eppure – ma proprio per quest’aura che avvolge e ormai precede Babele – se si rileggono i nove versetti di Genesi 11,1-9 ci si trova di fronte a un testo sorprendentemente scarno, quasi deludente. Anzi, a dirla tutta, non vi si trovano alcuni degli elementi che riteniamo essenziali in quell’episodio, al punto da restare perplessi di fronte all’intervento del Signore. Probabilmente, facendo uno sforzo di astrazione, se queste righe non stessero nella Bibbia, ma in una serie di racconti mitici di un qualunque popolo esotico o lontano, ebbene, probabilmente avremmo l’impressione che quel Signore che interviene possa rappresentare una figura malvagia, visto che si contrappone a un’umanità pacifica e innocente che, con quel poco che ha, cerca di lavorare a una grande impresa per restare unita.
Ma quell’episodio si trova proprio nella Bibbia, non nella dimensione mitica dell’indifferenza di un non luogo fuori dal tempo; e ciò basta a fare la differenza. In quel testo c’è un riferimento potentissimo, preciso e inequivocabile alla storia e alla geografia: la pianura del paese di Sennaar, cioè Babilonia, e nella Bibbia Babilonia è la potenza malvagia per eccellenza.
Da sempre il popolo “feroce e terribile” di Babilonia occupa le regioni circostanti e le divora; «tutti, il volto teso in avanti, avanzano per conquistare. E con violenza ammassano i prigionieri come la sabbia. Si fa beffe dei re, e dei capi se ne ride; si fa gioco di ogni fortezza: l’assedia e la conquista. Poi muta corso come il vento e passa oltre: si fa un dio della propria forza!» (cfr. Abacuc 1,6-11). Per la sua ferocia Babilonia è l’archetipo biblico della potenza spietata e dominatrice e la sua sconfitta quello escatologico della salvezza, tanto che nell’Apocalisse, quando ormai è Roma a ricoprire quel ruolo, ci si riferisce ancora al potere imperiale col nome di «Babilonia la grande, la madre delle prostitute e degli orrori della terra» (17,5), «la città grande, che regna sui re della terra» (17,18).
La torre di Babele, dunque, non è una semplice torre, ma – nata come simbolo di un impero che vuole farsi un nome, che vuole rendere la propria fama immortale – diventa simbolo universale del potere che si regge sul dominio e sul terrore. Per chi scrive e per chi legge quei nove versetti non c’è bisogno di entrare nei dettagli: il simbolo è di per sé eloquente; tanto eloquente che nei secoli successivi si produce un’ininterrotta serie di commenti, interpretazioni, midrashim, che non fanno altro che esplicitare un po’ alla volta ciò che in quel breve racconto jahvista è soltanto implicito. Gli sviluppi del racconto e dei suoi dettagli sono innumerevoli; qui seguiremo una linea che mette a tema il potere e il pensiero unico[1].
In alcune versioni del racconto il protagonista della costruzione della torre è Nimrod (etimologicamente “il ribelle”), figlio del figlio di Cam. Nimrod eredita dal nonno, che li aveva rubati a Sem, gli indumenti di pelle che Dio aveva cucito per Adamo ed Eva. Quando a vent’anni Nimrod li indossa per la prima volta diventa un cacciatore fortissimo. Cresce la sua forza e i Maestri spiegano che l’abilità nel cacciare deve essere interpretata come abilità nell’ammaliare le persone con il discorso. Nimrod, quindi, è un astuto cacciatore di consenso e così inizia la sua carriera politica. A quarant’anni, capo indiscusso dei figli di Cam, sconfigge e sottomette i figli di Jafet con l’aiuto di ottanta mercenari figli di Sem. Grazie alla vittoria, i figli di Cam lo incoronano re, e Nimrod, il primo sovrano della storia, fonda la città di Babilonia. Dopo aver organizzato il suo regno sconfigge anche i figli di Sem e li costringe a portare tributi, a stanziarsi nel suo territorio e a contribuire alla costruzione della città e della torre.
Dopo aver riunito sotto il suo potere l’intera umanità, non gli resta che realizzare la torre, ovvero il progetto più ambizioso della sfida diretta a Dio. Nimrod vuole vendicare la morte degli avi annegati ai tempi del diluvio. Consapevole del pericolo, il re vuole che la torre si innalzi talmente in alto da rendere innocuo un eventuale secondo diluvio. Anzi, per scongiurare definitivamente tale eventualità, l’idea di Nimrod è di giungere fino al firmamento per poi picconarlo e far quindi defluire le acque che stanno sopra il cielo in modo che Dio non abbia più la possibilità di usarle per sommergere il mondo.
Dopo aver sconfitto e soggiogato tutte le genti, cessa ogni conflitto tra gli uomini e la costruzione della torre procede in modo straordinariamente pacifico ed efficiente. L’umanità nel suo complesso è mobilitata, perfettamente organizzata, e ciascun individuo è coinvolto e intimamente motivato. Anche anziani, donne e bambini fanno la loro parte con stupefacente dedizione. Per la gioia dei dirigenti non ci sono né proteste né sindacati, le donne incinte rinunciano spontaneamente persino alla maternità obbligatoria e si danno da fare fino al momento del travaglio; a quel punto sospendono il lavoro giusto per il tempo necessario a partorire e, tagliato il cordone ombelicale, riprendono il lavoro legandosi al petto il neonato. La costruzione è ormai l’unica preoccupazione di tutti, sia di chi lavora direttamente alla torre sia di chi si occupa della logistica, degli alloggi dei lavoratori e della loro formazione professionale. In un sistema perfetto come quello di Babele non ci sono né defezioni né rallentamenti e, dopo quarantatré anni, seicentomila operai hanno innalzato una torre di diecimila miglia. Il cielo non è ancora stato raggiunto, ma i lavori procedono. Un problema serio è che ormai occorre più di un anno per arrivare in cima al cantiere e un anno esatto per scendere. La cosa inorgoglisce quest’umanità laboriosa, ma al tempo stesso disturba e preoccupa, tanto che, se cade un lavoratore dalla sommità della torre, nessuno ci fa caso, ma se si rompe un mattone tutti si disperano, sia per la gravità obiettiva della perdita sia perché per sostituirlo ci vogliono due anni.
L’unica voce fuori dal coro è quella del giovane Abramo, che quando passa davanti al cantiere cerca di distogliere i lavoratori dal loro cieco fanatismo ricavandone insulti e anche derisione per la sua sterilità. Già Sem ammoniva i suoi invitandoli a non lasciarsi coinvolgere nell’impresa, ma Abramo è colpito da uno stigma sociale gravissimo: la torre ha fame di lavoratori ed egli non contribuisce in alcun modo. Il pensiero di Abramo e il sistema ideologico della torre sono reciprocamente incompatibili, al punto che il giovane (all’epoca ha solo 48 anni) decide di andarsene [2]. Da allora Abramo diventa “l’ebreo”, etimologicamente da “al di là di”, ovvero colui che passa di là o che viene da di là (del Tigri, cioè del confine occidentale di ciò che in quel momento è il mondo). Abramo, cioè, è il diverso, e i Maestri spiegano che è chiamato così perché tutto il mondo era da una parte e lui era dall’altra. C’è chi vede in questa presa di distanza un elogio del nomadismo spirituale contrapposto alla sedentarietà appagata; Abramo incarna lo spirito insoddisfatto della critica del sistema di dominio che seduce e rende inumani.
Ma Abramo non è il solo, perché anche Dio guarda con tristezza e preoccupazione alla torre. Il Signore osserva gli uomini e si rende conto che hanno perso sé stessi per identificarsi completamente con la loro impresa. «Si sono trasformati in macchine puntate in un’unica direzione. Li ho lasciati fare finora perché non si ingannano e non si uccidono a vicenda, ma che pace è questa in cui si è perso il valore della vita umana? Venite, scendiamo fra questi sciocchi, confondiamo le loro lingue e costringiamoli a pensare»[3].
Gli sciocchi, ovviamente, pensano di pensare; anzi, la loro mente affaccendata è ingolfata di pensieri, di calcoli e di programmi, e si offenderebbero se qualcuno dicesse loro che non pensano. La cruda realtà è che il progetto ha preso il sopravvento e che ormai gli uomini non ci pensano più, ma si pensano dentro quel progetto. Gli uomini non sanno vedere oltre; nemmeno immaginano ci possa essere altro, un oltre. Un pensiero che non sa andare al di là dei limiti che il sistema gli impone non è degno di essere chiamato pensiero, almeno secondo Dio. Gli sciocchi continuano a pensare, ma esercitano un pensiero minorato, ridotto a conoscenze, abilità e competenze, è una mera ragione strumentale finalizzata a superare gli ostacoli che di volta in volta impediscono di raggiungere lo scopo prefissato e mai più discusso. Il pensiero, però, non si accontenta di razzolare al livello dei meri mezzi; il pensiero per sua natura trascende i confini, aspira al regno dei fini che sta al di là.
Dio vuole costringere gli uomini a pensare, ma dove c’è un solo popolo, una sola lingua e “le stesse parole”, non c’è alcun bisogno di pensare. Per sabotare l’unità che sta alla base del sistema della torre di Babele, il Signore chiama i settanta angeli più vicini al suo trono e con loro scende a confondere il linguaggio degli uomini, in modo che invece di una sola lingua ne parlino settanta. La confusione è immediata: se un muratore chiede della calce a un manovale, questi gli passa un mattone e il muratore si adira fracassandogli il cranio. L’altro era fino al giorno prima solo l’ingranaggio impersonale di una macchina più grande e svolgeva alla perfezione il suo compito. Tutto funzionava, dunque nulla doveva essere pensato. L’altro ora è una persona che deve essere compresa, non foss’altro per ottenere ciò che si vuole. Tra incomprensioni e violenze il lavoro rallenta per poi fermarsi del tutto. Al di là del fallimento dell’impresa della torre, Dio ottiene che i lavoratori debbano ora fermarsi e prendersi in considerazione tra loro. La diversità delle lingue è lo stratagemma divino impiegato per costringere gli uomini a comunicare nuovamente tra loro, a riconoscersi, a pensare.
Da allora si diffusero settanta lingue diverse e ciascuna stirpe «si scelse il proprio paese, fondò le proprie città, formò nazioni e non riconobbe nessun capo comune»[4].
L’ultimo cantiere
Dal cantiere che implode per la confusione delle lingue dilagano la diversità e il conflitto. Il conflitto è il prezzo da pagare, ma è anche la conditio sine qua non 1) del pensiero 2) e dell’emancipazione di questa umanità uniformata, spersonalizzata e soggiogata.
1) Il pensiero vive del confronto e dello scontro di idee diverse tra i diversi pensanti e ancor prima, in ciascuno di loro, del conflitto interiore che si genera tra le idee. Con una sola idea non si pensa; chi ha una sola idea, fosse anche la sua ultima idea, non ha ancora iniziato a pensare e probabilmente ne ha sempre avuta di volta in volta una soltanto.
2) Ogni sistema di potere, non a caso, aborre il conflitto e auspica la pace: se possibile attraverso il consenso, se necessario attraverso la violenza. La pax romana – che l’Apocalisse definirebbe “babilonese” – insegna che l’unità è la copertura ideologica dell’unificazione, ovvero di un processo che passa per la sottomissione e poi l’accoglienza del sottomesso e la repressione del ribelle. La cessazione di ogni conflitto e l’unità sono il sogno di tutte le imprese imperiali, per poter prosperare senza ostacoli.
Non a caso E pluribus unum è il motto che campeggia sullo stemma dell’ultimo grande impero, quello americano (peraltro, sul rovescio compare una torre a forma di piramide a gradoni non finita!). Le origini degli Usa affondano anche nella molteplicità delle tribù europee che collaborarono nella conquista dell’immenso territorio e nel genocidio delle tribù indigene. La crescita inarrestabile della potenza economica americana si alimentò con l’assimilazione di sempre nuove ondate migratorie e con la repressione feroce delle minoranze, del movimento dei lavoratori, di socialisti, comunisti e anarchici. Nel momento del suo massimo splendore, dopo il trionfo nelle guerre mondiali, la società statunitense si illuse che il liberal consensus fondato sul liberalismo politico e sul liberismo economico corretto da una dose di welfare keynesiano avesse definitivamente risolto il problema del conflitto politico e sociale. Ma ancora una volta, al di là della facciata liberaldemocratica e del diffuso benessere, quell’ordine prevedeva un certo numero di esclusi dentro i confini nazionali e il dominio neocoloniale al di fuori. Non è mai bene fare indebite generalizzazioni, ma spesso, in quel cantiere, certi mattoni valevano più di certi uomini.
L’illusione della pacificazione si ripropone su ben altra scala negli anni Novanta. Come Nimrod – che aveva sconfitto gli ultimi avversari, i figli di Sem, dopo aver combattuto al loro fianco nella guerra precedente –, l’impero Usa vede crollare l’ex alleato e ultimo nemico: l’Urss. Dei due sistemi che si erano combattuti per un secolo breve ne resta soltanto uno, e il suo cantore, Francis Fukuyama, giunge a parlare di fine della storia e di “ultimo uomo”[5]. In assenza di alternative, sia di pensiero sia di potere, si prospetta l’estensione a livello globale dell’unico modello di uomo e di società. La legittimazione, tanto per cambiare, sta nella vittoria, e i teorici della globalizzazione predicano un mondo riunito nel consenso e pacificato per l’assenza di nemici. La globalizzazione del paradigma sostituisce il conflitto dei paradigmi. All’interno dell’unico sistema non ci saranno più oppositori del sistema, ma solo problemi tecnici cui dare risposte adeguate; secondo Fukuyama «non possiamo immaginare un mondo sostanzialmente diverso dal nostro», e, in assenza di una radicale alternativa ideologica, si produce un accordo sui fini, per cui le divergenze saranno d’ora in poi di ordine meramente gestionale e amministrativo[6]. Il problema del fine più non si pone; il fine del sistema vittorioso è l’affermazione definitiva del sistema stesso, e ciò che resta da fare e da pensare è come meglio e prima realizzare l’unico fine. Il pensiero si muove dentro i confini del sistema e, a seconda dei gradi di consapevolezza, nega o non sa di un al di là.
Il fascino della vittoria e del successo sono contagiosi, ci si fa un dio della propria forza. In quegli anni i vincitori celebravano sé stessi, incassavano consenso e profitti, e gli sconfitti, pentiti, cercavano di adeguarsi il più in fretta possibile al mondo nuovo e al suo pensiero unico. In buona fede e falsa coscienza le idee dei vincitori venivano infinitamente ripetute – nei parlamenti, sui giornali, nelle università, nelle scuole, al bar – e «tutta la terra aveva una sola lingua e le stesse parole».
Ma chi ha letto e meditato quei nove versetti della Genesi sospetta che queste cose siano già accadute e che possano andare a finire male. L’umanità tronfia diventa cieca ed è sempre molto doloroso dover riaprire gli occhi per scoprire all’improvviso che c’è molto altro, e farlo senza il supporto di un pensiero adeguato. Nel 2001, con la tragedia di ben due torri, anche i più fanatici seguaci di Nimrod hanno dovuto constatare che ci sono ancora lingue, nazioni, conflitti, idee.
Note
[1] Le fonti utilizzate vanno dalla letteratura apocalittica degli ultimi secoli a.C. (es. il Libro dei Giubilei) fino ai nostri giorni, passando per la qabbalah medievale e moderna. In particolare, cfr. Apocrifi dell’Antico Testamento, a cura di P. Sacchi, Utet, Torino 2013; R. Graves – R. Patai, I miti ebraici. Il libro della Genesi, TEA, Milano 1988; G. Busi – E. Loewenthal (a cura di), Mistica ebraica. Testi della tradizione segreta del giudaismo dal III al XVIII secolo, Einaudi, Torino 1995; G. Busi, Simboli del pensiero ebraico. Lessico ragionato in settanta voci, Einaudi, Torino 1999.
[2] L’idea che Abramo parta anche per l’insofferenza verso l’impresa di Nimrod è stata ripresa recentemente da Thomas Mann nelle Storie di Giacobbe.
[3] G. Limentani, Gli uomini del Libro. Leggende ebraiche, Adelphi, Milano 1975, p. 84.
[4] R. Graves – R. Patai, I miti ebraici. Il libro della Genesi, cit., p. 154.
[5] Cfr. F. Fukuyama, La fine della storia e l’ultimo uomo, Rizzoli, Milano 1992.
[6] Cfr. ivi, p. 72.
Tratto da: https://serenoregis.org/2020/07/14/babele-e-le-insidie-del-pensiero-unico-claudio-belloni/
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