FESTIVAL, GRAMELLINI, FERRAGNI: TRE ARALDI DEL PENSIERO UNICO DOMINANTE

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La vera emergenza è quella dello spettacolo integrato, che non trova sufficienti contraltari nel mondo del dissenso.

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Di Massimo Franceschini

 

Pubblicato anche su Sfero

 

A livello italo-mediatico, Gramellini non perde mai l’occasione di ergersi come uno dei massimi portavoce del “pensiero unico dominante”: quasi sempre con un fondo di pesante ipocrisia, a volte rasentando l’idiozia, immettendo comunque piccole parti di verità necessarie a renderlo credibile, come in questo caso in cui sul Corriere della Sera commenta il monologo della Ferragni a Sanremo.

Come il Gramellini, che afferma di averlo “soltanto orecchiato”, sono purtroppo dovuto andarmi a vedere il monologo dell’ineffabile “imprenditrice di se stessa”, un pezzo che conferma quanto scrivevo sulla manifestazione in un post, proprio lo stesso giorno, commento al quale gli eventi dei giorni successivi hanno dato ancor più forza: “Mi son bastati pochi secondi qua e là: pesante, accecante, ridondante, mediocre, sgraziato, inutile, vuoto, ma pieno di troppo, di nomi improbabili, di ridicoli vestiti, di stupide melodie, di ideologia scenografica, di scenografia dell’eccesso, di soverchiante idiozia: Sanremo”.

Comunque, pur nella “nuda” e per questo sgraziata rappresentazione, la Ferragni direbbe qua e la anche cose sensate, apparentemente sincere, nonostante nulla di ciò che afferma sia inedito, originale: è la totale forzatura “esteticamente ideologica” da cui si esprime a rendere il tutto falso, sopra le righe, al limite del grottesco.

Con la frase “Se nascondi il tuo corpo sei una suora, se lo mostri sei una troia”, la Ferragni cerca di dare una parvenza di dignità “politica” al monologo mentre, al contrario, con il suo look si rende paradossalmente “donna oggetto”, in questo caso della sessualizzazione dell’esistenza e della perdita di ogni sobrietà, decenza e dignità personale, proprio quando pretende di essere il massimo del femminismo.

Sulla questione “sessualizzazione” vi prego di andare a leggere questo mio dello scorso anno, di cui il presente è dovuta continuazione.

Oltre alla questione di base del perché il popolo italiano debba meritarsi e sopportare mostruosità culturali come il festival, ad onor del vero riuscendoci apparentemente benissimo, sono le intrinseche contraddizioni fra il testo e l’esibizione del “fenomeno” Ferragni, non colte dal Gramellini, ad essere la vera questione, insieme al reale significato del “pensiero unico dominante” veicolato dal festival e da tutto il sistema di “spettacolo integrato” dal quale, come già ben compreso da Guy Debord cinquanta anni fa, siamo sempre più governati.

Il critico infatti “non riesce” a capire che l’“interpretazione impacciata” sia del tutto coerente con il suo voler apparire vera, esatta alla sua riflessione intima, anche perché non stiamo parlando di un’attrice consumata.

Il problema è invece proprio la nudità del look, dato che diventa la cosa più importante e di impatto del monologo, insieme alle coerenti montagne russe emotive durante la sua lettura.

L’ipocrisia del Gramellini conferma tutto ciò, commentando l’appello alle donne fatto dalla Ferragni così: “[…] l’imprenditrice digitale più famosa d’Italia finisce per rivolgersi alle tante giovani donne che vorrebbero assomigliarle. Le ha invitate a far pace con le proprie insicurezze. E ha ricordato loro che, quando una cosa ti fa paura, significa che è quella giusta da fare. Lo aveva già detto Jung, anche se non a Sanremo e senza che nessuno commentasse il suo vestito. […] le critiche al suo monologo sono la conferma che il mondo, almeno in Italia, si divide ancora tra chi comunica per arrivare a tutti e chi pensa che arrivare a tutti renda banale qualsiasi comunicazione”.

Sorvolando il fatto che il Gramellini non trovi niente da ridire sulla qualità del “prodotto” Ferragni, certo brava imprenditrice di se stessa, ma solo dal punto di vista manageriale, visto che vende oggetti griffati di cui potremmo benissimo fare a meno, in questi brevi estratti possiamo individuare sia la parte negativa, sia quella positiva del suo discorso.

Sorvolare la questione estetica come fa lui, addirittura censurando i commenti al “vestito” dal quale mette in mostra i seni, come se fosse cosa di poco conto, il Gramellini nel suo piccolo fa un enorme favore alla filosofia dominante che ormai non è più solo “consumistica”, ma è diventata ben altro, come abbiamo constatato per tutto il festival, “onorato” anche della presenza della massima carica dello Stato: la cultura di totale negazione della normalità e trasformazione di tutto, che vediamo continuamente nella pubblicità, nelle sceneggiature, a teatro, nei videoclip, insomma in tutta l’espressione dominante impegnata nella confezione di un drammatico mix confondente ogni valore, la stessa identità che si vuole gender-fluida come opzione da scegliere già da bambini, precipitata in una drammatica dicotomia ipersessualizzante/desessualizzante tesa a sconvolgere niente meno che l’ordine socio-antropologico costruito sulla natura “binaria” della nostra specie, a partire dalla famiglia.

I temi di una bioetica “aberrata” e aberrante, per fini di controllo individuale e sociale, possono così facilmente introdursi in prima serata, dopo decenni di continua demolizione ideologica, politica, economica e civile dello stato di diritto, che a sua volta ha permesso di convincere gran parte degli italiani sulla “verità” delle varie “emergenze”.

Nessuno sembra aver qualcosa da ridire riguardo la mediatizzazione della cultura e del confronto politico, un’operazione che ha messo tutto nelle mani delle entità private, collegate con gli “stati profondi”, entità che detengono la finanza e con essa “big tech”, “big media”, “big pharma” e per questo capaci di indirizzare cultura, politica ed il sentire comune in un modo che non appare più come intollerabile per una civiltà che dovrebbe essere del diritto, realmente moderna ed evoluta politicamente e giuridicamente, ormai ridotta ad esserne controfigura basata sulla totale negazione e riscrittura.

Capite bene che tentare di metter mano culturalmente e politicamente a quel coacervo di interessi e alla cultura transgender-transumana rappresentata egregiamente dal festival e dallo spettacolo integrato che va in onda ogni momento da ogni tv e smartphone, possa apparire ormai impresa disperata.

Ancor più disperata se si considera lo “stato operativo” culturale e politico dell’area del dissenso, ancora incapace di organizzarsi in un soggetto politico serio in grado di parlare al paese, dopo aver subito l’antipolitica generata dalla “fantastica” operazione di demolizione ad opera dei 5 Stelle: un’area governata da personalismi e temi velleitari che ancora ricalcano vecchie contrapposizioni ideologiche, ancora incapace di capire che proprio sui temi etici portati a pari dignità di quelli economici e sociali sarà possibile organizzare una sintesi capace di produrre una nuova classe politica, in grado di intercettare la gran parte della società civile ancora scontenta del presente.

Proprio sulla necessità di comunicare a tutti possiamo intravvedere una qualche utilità nel commento di Gramellini, che l’area del dissenso dovrebbe ben comprendere.

Se ci ridurremo ad aspettare le prossime generazioni non troveremo nessuno, dato che hanno l’attenzione già “meta-deviata” dal nuovo ordine spettacolarizzato.

 

13 febbraio 2023
fonte immagine: Wikimedia Commons e web

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