di Fiorenzo Fraioli
Il 13 ottobre 1978, otto mesi dopo il ritrovamento del corpo di Aldo Moro, e cinque dopo le elezioni amministrative, il parlamento italiano discuteva dell’adesione allo SME. Si fronteggiavano due posizioni: coloro che volevano entrare immediatamente nello SME, tra essi La Malfa (PRI), Malagodi (PLI), Pannella (Radicali), Romualdi (MSI), e altri, tra i quali Pietro Longo (PSDI), Lucio Magri (PdUP), Luciana Castellina (Democrazia Proletaria), Fabrizio Cicchitto (PSI), Giorgio Napolitano (PCI), Massimo Gorla (Democrazia Proletaria), i quali, in misura maggiore o minore, manifestarono le loro perplessità e i loro timori, quando non l’aperta ostilità. I gruppi della sinistra, insomma, erano tutti, chi più chi meno, contrari o dubbiosi, mentre l’adesione immediata allo SME era sostenuta in modo compatto dallo schieramento conservatore. Occorre precisare, però, che aldilà delle dichiarazioni rese, il PSI finì con l’astenersi, mentre il PCI chiese, ed ottenne, lo spezzettamento in tre parti della mozione in votazione, e votò contro solo sulla seconda parte (quella che conteneva l’impegno per l’adesione immediata dell’Italia allo SME), astenendosi sulla prima e sulla terza parte.
L’intervento più favorevole all’ingresso immediato dell’Italia nello SME fu quello di Giovanni Malagodi, segretario del PLI. Vale la pena riportarne uno stralcio, che risulta illuminante.
“Noi pensiamo che gli investimenti dipendano anche dalla mobilità e dal costo del lavoro. Abbiamo preso atto a suo tempo della cosiddetta svolta sindacale dell’EUR, però fino ad oggi non abbiamo ottenuto alcun risultato pratico. Ci auguriamo vivamente che esso venga, e non nascondiamo che vediamo, nella nostra appartenenza allo SME, una specie di metro concreto con il quale misurare la fedeltà dei sindacati a questa loro proclamata nuova politica. Non è che il vincolo esterno possa in qualche modo forzarci (questa è una illusione!): la verità è – diciamocelo chiaro – che o noi facciamo questa politica interna finanziaria, del lavoro e degli investimenti in modo giusto e coerente con lo SME, oppure quello che potrà succedere al nostro paese sarà così grave che anche il fatto di uscire dallo SME non avrà più alcuna importanza; vi sarà un disastro nazionale, del quale l’uscita dallo SME sarebbe soltanto un dettaglio”.
C’è, in queste parole, il nocciolo degli interessi concreti, di bottega domestica, del capitalismo italiano: disciplinare (dopo la delusione della “svolta dell’EUR”) le richieste di aumenti salariali e miglioramenti contrattuali con il ricorso a un “vincolo esterno”: lo SME all’epoca, successivamente la moneta unica. Ma c’è un altro passaggio sul quale è utile concentrare la nostra attenzione, allorché, all’inizio del suo intervento, Malagodi accenna al problema della “simmetria”:
“Sugli aspetti monetari, vorrei formulare un’osservazione relativamente alla famosa simmetria. La simmetria, prima di tutto, va riveduta e messa a punto entro sei mesi e, quindi, non è una cosa già tagliata ed asciutta, come dicono gli inglesi, anzi, senza forse, lasciare alquanto elastica. Ci si può domandare se si possa veramente, nella realtà delle cose, paragonare, per esempio, il passaggio della soglia di divergenza da parte di un paese il quale pratichi una politica di contenimento rigoroso dell’inflazione, e quello di un paese che, ad esempio, si abbandoni a trascorsi inflazionistici sul tipo di quelli cui noi ci siamo abbandonati, e la stessa Inghilterra si è abbandonata qualche tempo fa, anzi non molto tempo fa, quando abbiamo raggiunto, entrambi, un’inflazione di circa il 2 per cento al mese, cioè il 24 per cento all’anno. E’ chiaro che siamo in presenza di casi diversi. E’ chiaro che il principio della simmetria è importante perché, in sostanza, significa la solidarietà fra i più forti ed i più, deboli, ma non è neppure un principio che possa essere applicato in modo astratto”.
Malagodi fa chiaramente riferimento al problema del coordinamento delle politiche economiche, ma ne critica “l’applicazione astratta”, perché vi sarebbero comportamenti per loro natura “virtuosi” ed altri che tali non sono. Va da sé che i comportamenti “virtuosi” siano quelli dei paesi che mantengono bassa l’inflazione, vale a dire quelli che meglio sanno “disciplinare i lavoratori”, dal che discende che, in caso di divergenza tra le inflazioni dei paesi aderenti, il peso dell’aggiustamento debba essere a carico di quelli con un’inflazione maggiore. Come? Comprimendo i salari, ovviamente. Non va bene il contrario, cioè che a ristabilire l’equilibrio sia un aumento dei salari nei paesi “virtuosi”. Viene spontaneo domandarsi perché, ai lavoratori di questi paesi, non debba essere riconosciuto il diritto a godere di aumenti salariali, ma la risposta, ne sono certo, è già dentro di voi: il vero obiettivo dello SME era quello di imporre una disciplina salariale, attraverso un vincolo esterno costituito, per il momento, solo dall’imposizione di cambi fissi tra le monete. Il vincolo esterno sarebbe stato rinforzato, e di molto, dai successivi provvedimenti: il divorzio tra Tesoro e Banca d’Italia e la completa trasformazione del Mercato Comune Europeo nel Mercato Unico.
Tra gli interventi favorevoli all’entrata nello SME è opportuno ricordare quello di Pino Romualdi del MSI.
“Il nostro è un documento semplice, di puro impegno al Governo di entrare immediatamente nel sistema monetario europeo, nello spirito e nella lettera di quei trattati di Roma del 1957 che noi abbiamo votato, mentre non sono stati votati dal partito comunista e nemmeno dal partito socialista, che oggi si trovano allineati in questa posizione… aggiungo che voteremo nello stesso spirito e nella stessa logica, dopo aver respinto i cappelli più o meno ridicoli e fumosi dell’antifascismo, a favore anche di quei punti delle risoluzioni che convalidano la nostra posizione positiva nei confronti dell’immediato ingresso dell’Italia nello SME, così come deve essere nelle speranze di ciascuno di noi, perché questa è la strada per il Governo per realizzare concretamente, e non a parole, l’Europa unita, capace di difendere i suoi popoli e i suoi interessi (Applausi dei deputati del gruppo del Movimento sociale italiano-destra nazionale – Congratulazioni)“.
E con ciò possiamo definitivamente mettere a tacere quelle voci della destra contemporanea che tentano di accreditare una lettura dei fatti che ascrive alla sola sinistra la responsabilità della partecipazione italiana al processo di integrazione europea, così come è stato concepito e condotto dall’adozione dello SME in poi. La realtà è ben diversa: tutte le forze politiche, ad eccezione di Democrazia Proletaria che si oppose con estrema decisione, sostennero in modo più o meno convinto l’adozione di un regime di cambi fissi frettolosa e senza le necessarie garanzie per i ceti popolari, sia dei paesi più deboli che di quelli più forti. Questa realtà non può essere celata nemmeno dal fatto che, in sede di votazione, il PCI si espresse parzialmente contro, ma solo sulla seconda delle tre mozioni in cui aveva chiesto, e ottenuto, che il documento fosse diviso: quella relativa all’entrata immediata a partire dal primo gennaio 1979. Il PSI, pilatescamente, si astenne. Tuttavia le dichiarazioni a verbale dai relatori dei partiti della sinistra (tra i quali, “perfidamente”, ricordiamo Giorgio Napolitano) dimostrano come fossero ben presenti, ai dirigenti dell’epoca, le conseguenze per gli interessi del lavoro di quella scelta. Ecco altri stralci tratti da quella importante seduta:
Lucio Magri (Democrazia Proletaria): “Una prima considerazione da fare, di buon senso ma non ovvia, è questa: negli ultimi anni il deprezzamento della moneta e l’elevato tasso di inflazione non sono stati per l’economia italiana solo una manifestazione di crisi, sono stati anche il principale strumento di difesa rispetto alla crisi stessa. E’ il deprezzamento della lira, infatti, che ha consentito una rapida espansione delle esportazioni senza grandi investimenti, senza nuovi settori trainanti e dunque con un contenuto tecnologico relativamente in declino; è il deprezzamento della lira che ha consentito anche una ristrutturazione industriale fondata prevalentemente sul decentramento produttivo, sulla piccola e medita impresa, sul lavoro precario. Ed è, infine, l’inflazione permanente che ha consentito, pur senza grandi trasformazioni strutturali, una poco appariscente ma sostanziosa redistribuzione del reddito interno e la compressione delle rendite, soprattutto bancarie ed edilizie. Che si trattasse di una soluzione illusoria, e comunque efficace solo nel breve periodo, è fuori di dubbio, e noi più di altri lo abbiamo sempre sostenuto. Quanto può reggere un equilibrio fondato sul fatto che si esporta sempre più per ottenerne in cambio, in termini reali, sempre meno, o sul fatto che un settore crescente dell’economia sopravvive a bassa produttività soprattutto grazie all’evasione fiscale e previdenziale o sul fatto che si comprime il reddito di certe zone o strati della società ma senza modificarne la fisionomia produttiva e proporre loro una nuova prospettiva di sviluppo?“
La posizione di Magri è improntata, oltre che all’ovvia considerazione che l’inflazione tende a favorire “una poco appariscente ma sostanziosa redistribuzione del reddito interno”, anche ad un sano realismo. Magri è consapevole che la svalutazione non risolve le debolezze intrinseche del sistema economico, limitandosi a svolgere una funzione difensiva, ma ribadisce che il superamento di questi limiti non può venire che da una sana politica interna, giammai dall’imposizione di un vincolo esterno, il cui vero scopo è quello di smantellare i rapporti politici e di classe costituitisi nel corso degli anni settanta. Ancora Lucio Magri:
“Anche coloro, insomma, che come l’onorevole Ugo La Malfa, al contrario di noi, ritengono possibile ed auspicabile un risanamento in termini capitalistici del nostro sistema produttivo, difficilmente possono negare il fatto che anteporre oggi l’unificazione monetaria ad uno sforzo politico economico di riconversione, che sarà certo lungo e complesso, vuol dire essere subito costretti a operazioni più drastiche, come l’attacco alla scala mobiIe, il fallimento delle imprese marginali, la riduzione secca della spesa pubblica; operazioni ,che separano, quindi, nettamente il problema della stabilizzazione da quello della programmazione di un nuovo tipo. di sviluppo; costituiscono un’ulteriore svolta moderata nel programma di Governo e, dunque, scontano uno scontro sociale durissimo e, dati i rapporti di forza reali, una soluzione politica al limite, e forse oltre il limite, dell’autoritarismo. E, infatti, almeno una parte di coloro che sollecitano questa scelta non nascondono affatto la valenza che essa ha; scelgono l’adesione allo SME non perché confidino in un vantaggio economico, ma perché la considerano un deterrente necessario per imporre, attraverso uno scontro, una svolta che smantelli i rapporti di forza politici e di classe costituitisi in questi dieci anni, e per la quale sanno di non avere una forza sufficiente all’interno del paese. Già questa sarebbe una ragione più che sufficiente perché la sinistra ed il movimento sindacale apponessero un rifiuto netto all’adesione allo SME ed avessero il coraggio di sostenerlo con una lotta politica generale, anziché con piccole scaramucce di retroguardia”.
Che la scelta di aderire allo SME non obbedisse a valutazioni razionali di politica economica, ma avesse altre motivazioni, è confermato da un passaggio dell’intervento di Ugo La Malfa, il quale candidamente afferma: “Signor Presidente, onorevoli colleghi, come uomo al quale si attribuisce una qualche competenza tecnica, devo dare ai miei colleghi giustificazione per il fatto di aver dato prevalente importanza al fatto politico rispetto al fatto tecnico”.
Anche Fabrizio Cicchitto “disse la verità”, sebbene oggi egli sia in ben altre faccende affaccendato: “Il dollaro in tutti questi anni ha manovrato e manovrato fortemente, si è deprezzato rispetto al marco almeno del 40 per cento, ha aumentato i suoi livelli di competitività in modo molto notevole e noi e la sterlina gli siamo andati dietro, fruendo dei livelli di competitività che in questo modo venivano conquistati. La tendenza attuale del marco è quella di arrestare la sua rivalutazione rispetto al dollaro zavorrandosi con le monete deboli e nello stesso tempo rivalutando abbastanza queste monete, in modo da diminuire la competitività della loro economia rispetto a quella tedesca. Noi dobbiamo misurarci con questo problema e con questo nodo e nello stesso tempo dobbiamo misurarci con i nodi di politica economica interna che abbiamo davanti. Cioè, dobbiamo misurarci con le differenze dei tassi di inflazione, di strutture e di produttività, di squilibri sociali”.
Che uomo intelligente Fabrizio Cicchitto! Non solo aveva capito la grande strategia tedesca (arrestare la rivalutazione del marco rispetto al dollaro zavorrandosi con le monete deboli e nello stesso tempo rivalutando abbastanza queste monete, in modo da diminuire la competitività della loro economia rispetto a quella tedesca), ma aveva ben presente il fatto che, in regime di cambi fissi (SME o euro) il vero problema da affrontare sarebbe stato quello dei diversi tassi di inflazione, e quindi di produttività. Altro che debito pubblico!
Ma il più chiaro di tutti fu Giorgio Napolitano. Ecco uno stralcio del suo intervento:
“Ponemmo in questo senso il problema delle condizioni in cui l’euro avrebbe potuto nascere come strumento valido e vitale, al quale l’Italia avrebbe potuto aderire fin dall’inizio. Quello delle garanzie da conseguire affinché l’euro possa avere successo, favorire un sostanziale riequilibrio all’interno dell’Unione europea (e non sortire un effetto contrario), è un rilevante problema politico. Le esigenze poste da parte italiana non riflettevano solo il nostro interesse nazionale: la preoccupazione espressa dai nostri negoziatori fu innanzitutto quella di dar vita a un sistema realistico e duraturo, in quanto – cito parole e concetti del ministro del tesoro e del governatore della Banca d’Italia: “Un suo insuccesso comporterebbe gravi ripercussioni sul funzionamento del sistema monetario internazionale e sulle possibilità di avanzamento della costruzione economica europea”. Ma dal vertice è venuta solo la conferma di una sostanziale resistenza dei Paesi più forti, della Germania, e in particolare della banca centrale tedesca, ad assumere impegni effettivi e sostenere oneri adeguati per un maggiore equilibrio tra gli andamenti delle economie di paesi della Comunità. E’ così venuto alla luce un equivoco di fondo: se cioè il nuovo sistema debba contribuire a garantire un più intenso sviluppo dei paesi più deboli della Comunità, o debba servire a garantire il Paese più forte, ferma restando la politica non espansiva della Germania, spingendosi un Paese come l’Italia alla deflazione”.
Era il 13 dicembre 1978! Essi sapevano!
Tratto da:
https://egodellarete.blogspot.com/2014/09/la-resilienza-delluro-8.html
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