di Paola Tavella
Contro la regolarizzazione della maternità surrogata. Parliamo anzi di “utero in affitto” perché si rende esplicita la transazione commerciale ed evitiamo il pinkwashing verso una nuova forma di schiavitù
Uso l’espressione “utero in affitto” invece di “surrogazione di maternità” perché rende esplicita la transazione commerciale. Mi oppongo alla retorica del “dono d’amore” e tutte le espressioni liriche, rispettose, sentimentali, inventate e diffuse dalle lobby delle industrie biotecnologiche, mentre si tratta di affittare, vendere, comprare, fare profitto. Una sorta di pinkwashing del linguaggio che mira a rendere accettabile e persino etico cancellare la madre e ridurre il suo corpo e il suo neonato a merci. Questa mistificazione nasconde una realtà brutale: essere affittate capita principalmente alle donne povere e/o di paesi poveri, e a loro arriva ben poco denaro perché il vero guadagno va alle agenzie.
La Conferenza dell’Aia ha stimato che il 50 per cento delle surroganti è analfabeta e accetta inconsapevolmente o su pressione degli uomini di famiglia che vogliono quei soldi. Ammassate con altre in grandi locali per risparmiare su dottori e strumenti diagnostici, nutrite e medicalizzate come mai in vita loro, quando infine il neonato viene portato via talvolta impazziscono, come raccontano le ONG per i diritti umani, e spesso non vengono più riammesse nei villaggi. Non è possibile tenere una creatura dentro, metterla al mondo e poi vedersela portare via per sempre senza soffrire. Non si tratta di ragioni culturali – si è sostenuta persino questa – ma umane: la chimica ormonale che favorisce l’attaccamento tra madre e bambino, e poi la montata lattea, ovvero la sopravvivenza della specie. È proprio questo legame, fondante della vita stessa, a essere negato. Tutti i contratti di surrogacy dettagliano al millimetro quello che le mamme non possono fare, pena una multa: toccarsi la pancia, per esempio. Mangiare come d’abitudine. Avere rapporti sessuali. Tenere in braccio gli altri figli. Giocare con il gatto. Scegliere come partorire.
Ho letto un centinaio di contratti di surrogacy, sia ucraini che californiani, trovando – spesso nei primi e quasi sempre nei secondi – una clausola che impegna la madre a partorire nella modalità scelta dai clienti e farsi sedare subito dopo il secondamento, in modo che chi ha pagato possa farsi foto e filmini con il bambino, senza rischiare la sgradevole esperienza di sentire la madre urlare. Dovrebbe capirlo qualunque persona, e di certo le donne lo sanno, lo sanno tutte. Per questa ragione le agenzie comprano ovociti con qualche difficoltà (produrli ed estrarli è una procedura medica pesante e rischiosa) e spermatozoi molto facilmente, ma quello che più manca alla loro catena di produzione è la disponibilità dei ventri, degli uteri. È la ragione per cui le agenzie tacciono delle donne morte durante le surrogacy, i loro avvocati riducono al silenzio quelle che, subito dopo il parto, vogliono tenersi il figlio e non possono, quindi vanno fuori di testa. Diffondono invece testimonianze angelicate di signore felicissime di avere venduto i figli. Ma non sono testimoni, sono reclutatrici: si tratta di pubblicità.
Il dono d’amore, il gesto di generosità, l’aiuto a formare una nuova famiglia non esistono in Ucraina, dove l’utero in affitto è una piaga sociale che distrugge matrimoni, famiglie, legami sociali. L’Ombudswoman ucraina per i diritti dell’infanzia, Lyudmila Denisova, lo denuncia da tempo, così come le parlamentari europee di quel Paese. Il presidente della Commissione per i diritti dell’infanzia ucraino, Mykola Kuleba, grida contro una violazione enorme, spietata. E il dono disinteressato, poetico, non esiste neppure a San Diego, sede dell’agenzia californiana Extraordinary Conception, dove in effetti si incorre nel “rischio mercantile”: ovociti e uteri non sono certo gratis.
Ma quello che mi colpisce sopra ogni altra cosa è che nella discussione siano rimosse neonate e neonati, quel che significa per loro essere strappati alla madre e trovarsi con la più profonda radice dell’esistenza recisa, incorrere nell’abbandono pianificato. Se la vita prenatale esiste – le madri, la scienza, la medicina, la psicoanalisi dicono di sì – i bambini ottenuti attraverso questa pratica rischiano severi traumi. È puro buonsenso, e comunque la Convenzione sui diritti del bambino stabilisce che ha diritto di conoscere i suoi genitori e di essere allevato da loro. Quando si legge che le surroganti, ragazze povere che magari hanno già venduto tre o quattro figli, restano a far parte della famiglia dei ricchi acquirenti, di solito si tratta di chiamare ogni tanto su Skype, vediamo se stasera risponde, e sono casi rarissimi. Di norma madre e figlio non si rivedranno mai più. E di solito, ai figli dell’utero in affitto si mente dopo avere aggirato la legge, esponendo queste nuove vite a rischi emotivi e sanitari. Ecco perché farlo è vietato nella maggior parte dei Paesi del mondo, permesso in circa 20 su 206, e diminuiscono sempre. La Svezia, dove era legale, dopo una protesta delle femministe e un’inchiesta parlamentare, ha vietato severamente.
C’è un altro argomento dirimente che si oppone alla legalizzazione di questa forma di schiavitù. La maternità surrogata richiede l’invalidazione del principio giuridico mater semper certa est in base al quale la madre è la donna che partorisce. Del resto: chi altri potrebbe esserlo alla nascita? Le madri “sociali”, eventualmente, vengono dopo. Il principio mater semper certa non è una sciocchezza che possiamo lasciarci alle spalle in nome del profitto e di un diritto ad aver figli che, di certo, non esiste. Questo è il principio posto a presidio dell’essere umano fin dalla notte dei tempi. A proposito di una controversia su un caso di utero in affitto, recentemente la Cassazione tedesca ha ribadito che la madre è chi partorisce, di chiunque altra abbia venduto l’ovocita (che non è mai della mamma), qualunque contratto abbia sottoscritto. Sulla certezza della madre si regge il nostro mondo. La coppia madre-figlio/a è prima cellula di ogni comunità, è origine, matrice, ciò che fa sentire a tutti il pieno diritto di essere qui. Una volta l’illustre costituzionalista Silvia Niccolai mi ha spiegato perché il bando universale dell’utero in affitto difende l’umana civiltà. Eravamo a tavola, e ha detto: “Mater semper certa è il principio radicale che distingue un essere umano da, che so, questa pera”.
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