Le persone incaricate per selezionare dei dirigenti farebbero molti meno errori di casting se si prendessero il tempo di ascoltare coloro che conoscono meglio i candidati: i loro colleghi ed impiegati.
In occasione di un seminario per manager un ostetrico ricordava il periodo in cui, quando era stagista, gli si domandava di fare la spola fra reparti ospedalieri situati in diversi edifici. “Uno di questi reparti era un luogo gioioso, gestito da una capo-infermiera attenta a promuovere la collaborazione fra medici ed infermieri. Quando è andata in pensione, una infermiera titolata di un master MBA è stata designata per succederle.” Molto rigida, arrivava in anticipo per riprendere i ritardatari. “Prima le chiacchierate e le risate accompagnavano i cambi di turno. Ora è invece frequente sentire un’infermiera piangere in seguito di commenti della nuova responsabile.”
Quante volte vi è stata raccontata questa storia? O forse avete vissuto un’esperienza simile? Gli aneddoti di questo tipo sono di una spaventosa banalità, tanto che è lecito domandarsi se i capi che nominano delle persone “tossiche” come quadri non siano colpiti da cecità. Per lo psicologo americano Adam Grant non c’è ombra di dubbio. Spiega che nelle imprese coesistono dei “donatori” e dei “prenditori”. In un modo un po’ contraddittorio, se i capi riconoscono l’importanza dei comportamenti generosi e chiedono di reclutare soprattutto questo tipo di profilo, offrono poi le promozioni ai “prenditori”. Come spiegare questo paradosso? “Più avanzate nella vostra carriera, più pensate di essere capaci di riconoscere i talenti. In realtà succede esattamente il contrario.
Più avete del potere, più il vostro giudizio è falsato, in quanto i vostri collaboratori tentano di impressionarvi.
I “prenditori” al di sotto di voi sono degli eccellenti mentitori. Sanno che è in quel modo che avanzeranno nella carriera. Per valutare correttamente il valore di un salariato è necessario incontrare coloro che lavorano con lui o sotto di lui. Sono loro che vedono la sua vera personalità.”
Il potere rende ciechi.
Henry Mintzberg, professore di management e autore del libro “Bedtime stories for managers” non dice cose diverse. “ci sono solo due modi di conoscere i difetti di una persona: sposarla o lavorare per lei. Ora, quanti fra quelli che hanno l’incarico di scegliere i manager hanno già lavorato per i candidati? Di conseguenza un troppo loro scelte ricadono su delle persone dotate nel leccare gli stivali dei loro superiori, salvo poi utilizzare i propri stivali per schiacciare coloro che dirigono, ragione per la quale è imperativo dare voce, nel processo di selezione, ai salariati che i candidati hanno diretto.”
Un altro fattore che conduce i capi a offrire delle promozioni alle persone sbagliate è la convinzione che un salariato che eccelle nel proprio lavoro sarà un buon manager. Nel suo libro “Making a manager” Julie Zhuo, una dei vicepresidenti di Facebook, spiega di avere un giorno promosso a quadro una collaboratrice il cui lavoro era eccezionale. “Questa persona suscitava l’ammirazione di tutti. Ho naturalmente pensato che sarebbe stata un buon manager”. Errore, dato che l’impiegata in questione era una “creatrice”, cioè era una persona che amava lavorare su dei problemi di progettazione. Ora, la funzione di manager si accompagnava ad ogni sorta di problemi che l’allontanavano dai compiti di creazione che lei adorava. L’ambiente dell’ufficio si deteriorò e la donna ha finito con l’ammettere che non amava supervisionare il lavoro dei suoi colleghi.
Per Julie Zhuo ci sono da trarre degli insegnamenti. “La gestione delle persone richiede un interesse per… la gestione delle persone – analizza-. Se qualcuno non è appassionato per il lavoro di sostegno e sviluppo degli altri, gli sarà difficile di essere un buon manager”. Ed aggiunge che ogni aspirante manager dovrebbe cominciare dal seguire una formazione, poi gestire un nuovo collaboratore od uno stagista estivo “al fine di avere una esperienza prossima à ciò a cui somiglierà il suo lavoro”.
Le rockstars devono essere coccolate
Con un altro stile Kim Scott, autrice del libro “Sincerità radicale. Essere un capo «tosto» senza perdere la propria umanità”, arriva alle stesse conclusioni. “Per riuscire in materia di gestione dell’evoluzione di carriera i manager devono comprendere le motivazioni di ogni membro dell’équipe. Solo conoscendo sufficientemente i nostri collaboratori, sapendo ciò che per loro è importante nel loro lavoro, ciò che si attendono dalla loro carriera e a che punto si trovano attualmente che noi possiamo collocare le buone persone al posto giusto.”
La Sscott insiste sull’importanza di distinguere bene le “rockstar” dalle “superstar”. Le prime sono come dice il loro nome, solide come delle rocce. “Adorano il loro lavoro, hanno trovato il loro ritmo e l’impresa può contare su di loro per ottenere degli eccellenti risultati anno dopo anno. Non hanno bisogno di sfide. Il posto più in alto di loro non le appassiona, tantomeno se le allontana dal loro mestiere.” Al contrario le “superstar” sono sempre alla ricerca di opportunità per evolvere. E’ dunque importante proporre loro dei progetti motivanti, delle sfide che consentono di tenere in una situazione di apprendimento permanente.
Se guardiamo ai risultati collettivi, le rockstar sono tanto importanti quanto le superstar, ragione per cui è fondamentale ricompensarle. La riconoscenza non deve tuttavia avvenire attraverso promozioni a posizioni manageriali che non desiderano o per le quali non sono idonee.
Kim Scott suggerisce un bonus, un aumento o anche, per le persone che amano parlare in pubblico, l’opportunità di presentarsi a un grande evento aziendale. “Queste pratiche sono una buona alternativa al moltiplicarsi delle promozioni per persone che si sono distinte per anni nella stessa posizione”.
I pericoli dell’ossessione della promozione
Purtroppo numerosi datori di lavoro, convinti come la zarina Caterina la Grande che tutto ciò che non cresce deperisce, sviluppano una politica radicale: o l’individuo sale nella gerarchia o è licenziato. Ora, come attestano gli esempi citati precedentemente, l’idea di farsi strada nell’impresa è lungi dal motivare tutti.
Inoltre abbiamo tutti nella nostra vita dei periodi nei quali la nostra carriera accelera o fa una pausa, ragione per cui un capo non deve etichettare definitivamente un collaboratore la cui curva di evoluzione della carriera è più lenta.
“La questione non deve mai essere “questa persona ha un potenziale forte o debole?“, ma piuttosto “quale profilo di crescita ogni membro dell’équipe desidera in questo momento?“, conclude Kim Scott.
Tratto dal giornale mensile svizzero Bilan https://www.bilan.ch/ , numero dell’11.03.2020
Traduzione a cura di Davide Gionco
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