di Augusto Anselmo
L’Istituto per la Ricostruzione Industriale (IRI) ha accompagnato quasi settant’anni di storia italiana, chiamato dapprima a salvare dal fallimento le principali banche e aziende del nostro Paese dopo la crisi esplosa su scala mondiale nel 1929, protagonista poi della ricostruzione e del miracolo economico nel dopoguerra.
Dopo le difficoltà emerse negli anni ’70 e il programma di ristrutturazione e rilancio degli anni ’80, l’IRI ha concluso la sua attività nel 2002 con una serie di operazioni di privatizzazione.
Oggi c’è ancora chi rimpiange la possibilità di concretizzare azioni di politica economica tramite un grande attore come è stato l’Iri, ma pochi pensano che ciò sia possibile negli attuali scenari di economia globalizzata e di demonizzazione dell’intervento diretto dello Stato nell’economia.
Quale può essere allora la lezione che l’Istituto per la Ricostruzione Industriale consegna al nostro presente?
Una risposta a questa domanda può essere cercata nei sei volumi di “Storia dell’IRI” appena pubblicati dagli Editori Laterza che forniscono appunto non solo un’analisi del passato, ma indagano il “messaggio attuale” della storia dell’IRI.
La crisi iniziata nel 2008 ha reso più pressante l’obiettivo di innalzare la capacità di crescita della nostra economia: l’Italia deve recuperare un ritardo nella dotazione di reti infrastrutturali: proprio quelle che l’IRI contribuì a costruire in passato.
Oggi si parla molto dell’infrastruttura in fibra ottica, ovvero della nuova rete in banda ultra-larga, ma non solo: pensiamo che in Italia, mentre alcune città sono raggiunte dall’Alta Velocità, in altre mancano collegamenti ferroviari efficienti.
A ciò si aggiunga la rarefazione delle grandi imprese in Italia e la scarsa propensione dei capitali privati a impegnarsi per lo sviluppo di realtà aziendali o di progetti per il sistema-Paese: a tal punto, che il ruolo dello Stato appare irrinunciabile, non solo e non tanto come imprenditore ma soprattutto come innovatore.
Il citato Piano nazionale Ultra-Banda larga è un esempio lampante: i risultati della Consultazione pubblica Infratel 2015 sul Piano, resi noti dal ministero dello Sviluppo Economico, hanno mostrato che i piani di investimento degli operatori telecom al 2018 sono meno consistenti di quanto previsto e quindi le risorse pubbliche saranno più che mai cruciali per raggiungere gli obiettivi di copertura della popolazione con la fibra ottica.
Qualche economista ha fatto notare che non si tratta solo di scarsa propensione dei privati, ma di necessaria prudenza innescata dall’incertezza del ruolo pubblico e dalla confusione che lo Stato ha generato annunciando fondi pubblici per la banda larga senza garantirli, come ha fatto notare il prof. Carlo Alberto Carnevale Maffè, dell’Università Bocconi, secondo cui lo Stato non deve necessariamente investire, ma piuttosto “creare le condizioni perché si sviluppino gli investimenti” e solo laddove queste condizioni non si sviluppano, deve intervenire.
Una tesi simile è stata sostenuta dagli esperti che hanno partecipato al dibattito che ha accompagnato la presentazione dei volumi Laterza sulla storia dell’IRI.
Essi con varie sfumature concordano tutti sul fatto che il ruolo dello Stato negli investimenti oggi è ancora fondamentale, ma nel nuovo panorama dell’economia di mercato non si tratta tanto di intervenire investendo quanto di innescare l’innovazione e creare piani industriali coerenti che diano efficienza ai grandi progetti infrastrutturali.
Su questi progetti un ruolo dello Stato è imprescindibile, perché il rischio è alto e i tempi di ritorno molto lunghi.
Lo Stato dovrebbe quindi intervenire “accompagnando” i grandi progetti e “puntando sulle infrastrutture critiche per l’innovazione e la competitività del Paese, mentre si libera delle aree di inefficienza”, ha afferma Sergio Mariotti, professore ordinario di Economia Industriale al Politecnico di Milano.
“Le storie sono irripetibili e oggi la formula IRI non sarebbe riproponibile, ma la sua lezione resta attuale”, sottolinea il Prof. Mariotti.
“L’IRI ha rappresentato un grande gruppo industriale e finanziario e ha centralizzato capitali che erano difficili da reperire nel tessuto privato italiano, per lo più costituito da gruppi familiari che non potevano sobbarcarsi investimenti in grandi infrastrutture e industrie di base.
Oggi le forme dell’intervento pubblico sono cambiate, ma resta il fatto che alcuni settori, come banda larga, energia, …. sono grandi aree industriali in cui il coordinamento o la politica di accompagnamento dello Stato ai gruppi industriali privati è fondamentale.
“Non si tratta tanto di avere una partecipazione o proprietà nelle imprese, quanto di supportare certi settori con le politiche industriali, con le relazioni internazionali, con l’intervento nei dibattiti sulle normative che pesano su scala globale.
Insomma, di un più ampio coordinamento tra azione pubblica e azione privata, che si devono muovere insieme per promuovere la crescita delle infrastrutture e i grandi gruppi industriali, liberandosi invece da ogni ottica di assistenzialismo”.
Dalla visione dello “Stato azionista” si passa dunque a quella dello “Stato innovatore”, come sottolineato anche in un recente saggio di Marina Mazzucato, che cerca di sfatare l’idea diffusa che l’impresa privata sia innovativa, mentre lo Stato non possiede alcun dinamismo.
Al contrario, per la Mazzucato lo Stato può essere “l’imprenditore più audace, l’innovatore più prolifico”, finanziare la ricerca che produce le tecnologie più rivoluzionarie, dalla green economy alle Ict, dalle nanotecnologie alla farmaceutica, facendosi carico del rischio di investimento iniziale all’origine di grandi innovazioni.
Lo Stato è il più affidabile investitore a lungo termine, e ha dalla sua il “coraggio” e la lungimiranza che consentono di puntare sullo sviluppo di tecnologie i cui benefici saranno evidenti soltanto anni, o decenni, dopo, sostiene la Mazzucato.
Ovviamente lo scopo non è sostituire il privato ma portare pubblico e privato ad assumere insieme i rischi della ricerca e goderne insieme i benefici.
Anche Mariotti ricorda che quando era un’azienda di Stato Telecom Italia “aveva grandi progetti di infrastrutturazione che erano una scommessa imprenditoriale e che dopo la privatizzazione sono stati abbandonati perché privi di una redditività immediata.
Ma, se fossero stati realizzati, oggi non avremmo ritardi sulla banda larga. La possibilità di avere obiettivi di lunghissimo termine è importante,e per i gruppi privati non è facile”.
La tesi qui dunque è che lo Stati intervenga nel dirimere la problematica delle cosiddette “esternalità”, mitigando quelle negative, incoraggiando quelle positive e in generale favorendo le condizioni di mercato che conducono a più investimenti e innovazione e stimolando così l’imprenditoria privata.
Il ruolo dello Stato nel finanziare la ricerca innovativa, necessario complemento a quelle che scaturiscono dai grandi centri di R&D aziendali, è sottolineato anche dall’ultimo studio dell’OCSE, “Science,Technology and Industry Scoreboard 2015”: da un lato nel 2013 la spesa totale in R&D in area OCSE è cresciuta del 2,7% in termini reali raggiungendo quota 1.100 miliardi di dollari; dall’altro lato, però, la spesa pubblica in R&D è rimasta piatta o ha subito grosse fluttuazioni nella maggior parte delle economie industrializzate e nel 2014 rappresenta in media meno dello 0,7% del Pil.
Questo, secondo l’OCSE, “rischia di destabilizzare i sistemi di ricerca scientifica in molti Paesi avanzati”.
“Il finanziamento pubblico ha sostenuto lo sviluppo di molte delle tecnologie che trainano la crescita oggi, dall’economia digitale alla genomica.
Dobbiamo continuare a porre le basi tecnologiche per le nuove invenzioni e soluzioni alle sfide globali e non possiamo lasciare che gli investimenti di lungo termine vengano meno”, ha commentato il segretario generale dell’Ocse Angel Gurría.
Qui l’OCSE parla delle cosiddette “tecnologie di frontiera”, legate alla Internet of Things, ai Big data, al quantum computing, o ai materiali avanzati o alle nuove cure, che spesso nascono dalla ricerca di base, affidata in gran parte ai centri di ricerca pubblici e che resta fondamentale perché ha finalità “aperte” e di “ampio spettro”, mentre la ricerca delle imprese si indirizza su specifici prodotti immediatamente commercializzabili.
Certo, oggi i Paesi europei, tra cui l’Italia, devono fare i conti con un pesante freno agli investimenti pubblici, che siano nella ricerca o nelle infrastrutture: il vincolo sulla spesa pubblica.
L’intervento dello Stato – che oggi è affidato per esempio al CNR nel caso della ricerca, o alla Cassa Depositi e Prestiti per gli investimenti infrastrutturali – non ha gli stessi ampi margini di una volta: per garantirsi la capacità di agire, sottolinea il Prof. Mariotti, “i governi non hanno altra scelta che procedere a coraggiose spending review eliminando le aree di inefficienza e snellendo la burocrazia per liberare risorse per l’innovazione”.
[Aggiungiamo noi: in realtà i governi hanno un’altra scelta, quella di riprendersi la sovranità monetaria, in modo da poter disporre degli strumenti di finanziamento dello sviluppo del paese nel medio-lungo termine. Questo non significa non dover perseguire l’efficienza degli investimenti, come suggerisce il Prof. Mariotti, ma significa non dover attendere i DECENNI necessari all’eliminazione delle inefficienze per poter disporre dei fondi necessari agli investimenti per lo sviluppo del paese. In questo modo il paese potrà comunque svilupparsi, nonostante le inefficienze.]
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