di Federico Cenci e Luca La Mantia
20.11.2018
Pareri a confronto: Alessio Ciacci (contrario) vs Sergio Gatteschi (favorevole)
Termovalorizzatori sì o no? In Terris ha chiesto un parere a due voci discordanti sul tema: ad Alessio Ciacci, già assessore all’Ambiente del Comune di Capannori (LU), primo comune italiano ad aver aderito alla strategia internazionale Rifiuti zero, ha ricoperto il ruolo di presidente di aziende italiane di gestione dei rifiuti e ha ricevuto premi in Italia e all’estero per il suo impegno in favore dell’economia circolare; e a Sergio Gatteschi, presidente della sezione toscana di “Amici della Terra”, nonché fondatore e animatore del sito web zerosprechi.eu e della pagina Fb “Figli che vogliono l’inceneritore“, che punta a dimostrare l’importanza di questi impianti all’interno del ciclo dei rifiuti.
Alessio Ciacci
Che idea si è fatto della polemica politica sugli inceneritori?
“La legge europea parla chiaro: prima di tutto la prevenzione, poi il riuso, poi il riciclo e solo in ultima analisi è prevista la possibilità della combustione. L’Italia prima di pensare a nuovi impianti di smaltimento dovrebbe pensare a raggiungere gli obblighi di legge di almeno il 65% di avvio a riciclo, raggiungere e superare questi obiettivi ridurrebbe la necessità di smaltimento e non in 4-5 anni (il tempo minimo per realizzare quel tipo di impianti) ma in tempi anche molto minori, con minor dispendio di risorse e con la creazione di molta più occupazione”.
Ad oggi gran parte dei rifiuti del Mezzogiorno viene esportata nel Nord Italia o al di là delle Alpi, con costi di trasporto superiori a quelli di smaltimento. Non crede che, almeno nel breve periodo, attivare inceneritori anche nel Sud Italia possa rappresentare una soluzione?
“Intanto creare inceneritori nel breve periodo è un ossimoro, tra i tempi autorizzativi e realizzativi se ne vanno alcuni anni come minimo. Poi sarebbe controproducente perché se oggi fosse fatta una pianificazione di nuovi impianti di smaltimento in base alla situazione attuale ci sarebbero due tipi di problemi: primo, con l’aumento delle raccolte differenziate, quando questi impianti dovessero andare a regime si troverebbero senza combustibili e ci rimetterebbe la cittadinanza con aumenti tariffari non da poco; secondo, sarebbero un tappo enorme allo sviluppo di politiche di incremento delle raccolte differenziate anche oltre i limiti di legge (ci sono province italiane prossime anche al 90% di raccolta differenziata) e di innovazione tecnologica come ad esempio il riciclo di quanto oggi va ancora a smaltimento (ad esempio l’investimento Pampers-Fater a Treviso per il riciclo dei pannolini usa e getta)”.
Ed anziché creare inceneritori ex novo, non si potrebbero riattivare quelli spenti?
“Ci sono due inceneritori spenti nel Centro Italia, uno a Pisa (di Geofor, l’azienda pubblica del comune) ed uno a Colleferro (della Società Lazio Ambiente di proprietà della Regione). Qui i cittadini e il sindaco sono insorti contro l’impianto e adesso pare la Regione sia orientata a presentare un nuovo piano industriale che preveda l’investimento in tecnologie diverse dall’incenerimento”.
Eppure nella “verde” Copenaghen è attivo un inceneritore sul quale c’è una pista da sci…
“Quell’impianto sta incorrendo in condizione finanziarie critiche, perché non si sa cosa bruciarci. E poi una città che non arriva al 30% di riciclo dei propri rifiuti urbani non mi pare proprio un modello. In Italia abbiamo esempi molto più virtuosi”.
Ci sono impianti per il riciclo sufficienti per far partire subito una politica in tal senso su scala nazionale?
“Assolutamente sì, ma non si capisce perché la politica a livello nazionale ha sempre posto poca attenzione a questa filiera industriale che crea cinque volte più posti di lavoro (per tonnellata trattata) rispetto alla filiera dello smaltimento, che non è incentivata (come le energie rinnovabili, le fonti fossili o l’incenerimento). È chiaro che con l’aumento dei materiali della raccolta differenziata questi impianti vanno potenziati (soprattutto al Sud) e realizzati di nuovi ma, seppur senza aiuti che invece altri settori hanno, molti nuovi impianti sono in cantiere o in fase di progettazione”.
Prima ancora che politico, si ha l’impressione che il problema sia culturale. Come persuadere i cittadini circa la bontà del modello dell’economia circolare?
“Non sono d’accordo. È solo un problema politico. Il Sud non è indietro perché i cittadini sono meno sensibili ma perché la politica ha altre priorità o altri interessi. Ci sono città meridionali che raggiungono risultati eccezionali come Barletta che ha superato il 70% di differenziata, o Salerno. Se tutte le città italiane avessero avviato la raccolta differenziata domiciliare (l’unico sistema che garantisce una buona qualità dei materiali a riciclo) ed attuato sistemi di tariffazione puntuale, non saremmo a discutere di questi problemi e l’Italia sarebbe oggi un’eccellenza mondiale creando vantaggi economici enormi”.
Con il “modello Capannori” è diventato famoso in ambito internazionale. In tre anni alla guida della ASM di Rieti (l’azienda che si occupa dei rifiuti), ha triplicato la raccolta differenziata (arrivata al 60%) e dimezzato i debiti. Come si fa? È utopistico realizzare qualcosa di simile nelle metropoli?
“No, basta la volontà politica e persone capaci. San Francisco ha raggiunto il 70% ma anche Milano sta diventando un’eccellenza a livello mondiale: ha raggiunto negli ultimi mesi il 60% e sta migliorando continuamente le proprie prestazioni. Anche città come Lucca, Terni, Parma hanno superato il 70% per non parlare di Treviso che si sta avvicinando al 90%. Fino a qualche anno fa questi risultati venivano bollati come utopistici, oggi i successi sono reali e ci dimostrano che ci hanno guadagnato tutti: i cittadini, l’ambiente, l’economia e la qualità della vita. È l’unica strada possibile per costruire sostenibilità”.
Sergio Gatteschi
Un ambientalista che vuole gli inceneritori: sembra quasi un ossimoro. Perché questa scelta di campo?
“Perché quello dei rifiuti è un ciclo composto da 5 parti nessuna delle quali può essere trascurata. Primo: va ridotta al minimo la produzione; secondo: dobbiamo differenziare la raccolta in modo da recuperare alcuni materiali; terzo: serve un ciclo industriale che consenta il riutilizzo di quanto viene differenziato; quarto: occorre recuperare l’energia contenuta nella trazione residua dei rifiuti, proprio attraverso gli impianti di termovalorizzazione. L’ulteriore residuo, minimo, andrà in discarica che rappresenta l’ultimo, e il più negativo, dei passaggi. Gli inceneritori, dunque, fanno parte del ciclo dei rifiuti. E’ la stessa economia circolare che impone il recupero energetico. Eppure in alcune regioni, specie nel centrosud, tutto questo viene misteriosamente negato”.
Forse perché, come sostengono alcuni suoi colleghi, le emissioni dei termovalorizzatori potrebbero danneggiare salute e agricoltura. C’è chi parla di diossina…
“…che non viene più prodotta dagli inceneritori da almeno 10 anni, come dimostrano i sistemi di monitoraggio. Oggi, del resto, non vengono più bruciati materiali che potrebbero generarla, c’è una maggiore selezione in questo senso. Non dimentichiamo, poi, che i circa 850 gradi di temperatura interna di combustione frantumano le eventuali diossine. E aggiungo: tutti gli impianti di termovalorizzazione pubblicano online, in tempo reale, i dati sulle emissioni. Le percentuali sono irrisorie, di 50 volte inferiori ai limiti di legge”.
Come si spiega, allora, queste resistenze?
“La politica, semplicemente, non vuole scontentare i numerosi comitati contrari agli inceneritori. Va loro dietro per mero tornaconto elettorale. E’ semplicemente pazzesco. Anche perché in Italia i termovalorizzatori non mancano. Penso ai due di Milano, a quello di Torino, a quello di Bolzano che consente di sviluppare energia sufficiente a far funzionare i sistemi di riscaldamento di un terzo di città. Le emissioni sono veramente minime e, nel tempo, saranno ulteriorimente ridotte, grazie al progredire di sistemi di filtri, che, da soli, rappresentano circa il 90% di ogni termovalorizzatore, laddove la caldaia copre solo il 10%. Voglio poi aggiungere una cosa…”
Prego…
“Tutte queste attenzioni non vengono riservate agli stabilimenti industriali, quelli della chimica ad esempio, che possono arrivare a emettere sino a 500 chili di diossina. Per non parlare delle discariche, autentici incubi, capaci di sprigionare enormi quantitativi di polveri, che nessuno misura”.
Le regioni sprovviste di impianti come smaltiscono oggi i loro rifiuti?
“Appoggiandosi agli stabilimenti esistenti in Italia e all’estero. Faccio l’esempio di Napoli: i rifiuti prodotti nel capoluogo campano sono destinati per una gran parte a Milano, per un’altra a Vienna e per un’altra ancora addirittura a Rotterdam, attraverso un lunghissimo viaggio in nave. Questo avviene con costi enormi, economici e ambientali, visto il carburante impiegato per il trasporto”.
C’è il rischio che il sistema collassi?
“Sì c’è. Non molto tempo fa la Cina ha deciso di non accogliere più le plastiche dall’Europa. Ciò ha innescato un effetto domino che porta gli impianti italiani, già pieni, verso la saturazione, vista l’impossibilità di appoggiarsi a quelli europei. La questione è seria, lo dimostra quanto sta avvenendo nei centri di stoccaggio e nelle discariche, dove l’anno scorso di sono registrati più di 200 incendi, con fumi tossici annessi. Eppure di questo nessuno sembra preoccuparsi, meglio concentrarsi sullo zero virgola di emissioni prodotte dagli inceneritori…”
Tratto da:
https://www.interris.it/italia/inceneritori-s-o-no–parola-agli-esperti
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