di Davide Gionco
Questi giorni di quarantena collettiva forzata sono una occasione preziosa per rimettere in discussione molte nostre certezze che prima, aspetti a cui prima, nella nostra vita “normale”, non prestavamo attenzione.
In passato i nostri predecessori, quando si trovarono di fronte a delle pandemie, come ad esempio la peste nera del 1347, ebbero certamente paura, ma non per questo cessarono di vivere.
Forse possiamo pensare di passare alcuni mesi rintanati in casa per evitare il contagio del coronavirus, ma non possiamo pensare di passare una vita intera chiusi in casa, senza contatti sociali, senza poter lavorare per produrre quanto serve alla nostra comunità di persone per vivere. Vivere è altra cosa che sopravvivere.
I nostri antenati non vivevano in una società medicalizzata come la nostra, riconoscevano la loro fragilità, sapevano che la morte poteva arrivare in qualsiasi momento, anche da giovani.
Per questo motivo vivevano, vivevano intensamente, non sprecavano il tempo a fare cose per cui non meritasse di vivere. Si sposavano presto, facevano figli (tanti) per assicurare un futuro alla propria famiglia.
Credevano in Dio, perché la speranza nella vita eterna era l’unica certezza in una vita in cui si poteva morire in qualsiasi momento per una qualsiasi malattia.
Noi, quelli della società moderna, ci credevamo onnipotenti (e quindi non bisognosi di certezze ultraterrene). La morte era un tabù di cui non si doveva parlare, qualcosa che non riguardava la nostra vita “normale”, se non in occasione di alcuni fatti luttuosi in famiglia o di cari amici che ci hanno lasciati.
In questi giorni siamo morti un po’ tutti. Migliaia di persone ci hanno lasciati, la morte ha toccato i nostri familiari, i nostri amici, il nostro quartiere.
Siamo morti un po’ tutti, in quanto abbiamo dovuto rinunciare a quello che fino a 2 mesi fa pensavamo fosse il nostro “vivere”. Sono saltati i nostri programmi per il tempo libero, i nostri progetti professionali.
Questioni che consideravamo molto importanti all’improvviso si sono rivelate di importanza molto relativa, così come abbiamo riscoperto l’importanze di cose che davamo per scontate, come vedere in faccia le persone, stringere loro la mano, abbracciarle.
Il mito dell’individuo che si realizza da sé senza avere bisogno degli altri ha manifestato tutta la sua inadeguatezza.
Stiamo riscoprendo l’importanza del lavoro.
Con ogni evidenza sono stati dei lavoratori a salvare la vita alle persone malate e la disponibilità di mascherine e di respiratori si è rivelata palesemente molto più importante dell’andamento della borsa, di cui nessuno parla più.
Persino la finanza internazionale viene mobilitata per mettere insieme i fondi di cui i governi hanno necessità per sovvenzionare le imprese in difficoltà per il blocco economico del coronavirus.
Dopo anni passati a dirci che “non ci sono i soldi” e di manovre economiche “lacrime e sangue”, di colpo i soldi – in un modo o nell’altro – saltano fuori. E scopriamo che la finanza potrebbe essere SEMPRE utilizzata per sostenere l’economia reale, non solo in queste situazioni di emergenza.
Questo periodo è prezioso per comprendere quali sono le cose che contano e che non contano nella nostra vita: le cose che occupavano il nostro tempo e di cui oggi ci rendiamo conto che potevamo benissimo fare a meno; le cose di cui sentiamo di non potere fare a meno.
Quando usciremo da questo periodo della nostra vita e della nostra storia non saremo più come prima.
Avremo capito che la morte fa parte della vita e che, proprio per questo, dobbiamo dare importanza alle cose che ci consentono di vivere le cose veramente importanti.
Se non sappiamo comprendere il senso della morte e della vita, non sapremo mai vivere.
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