di Jean-Claude Paye
Condividiamo con voi questo interessante articolo comparso sul blog giornalistico
http://www.voltairenet.org/article201431.html
Partendo dalla Strategia per la Sicurezza Nazionale di Donald Trump, Jean-Claude Paye riprende il collegamento tra politica economica e politica militare della Casa Bianca. Paye analizza il contrasto tra due paradigmi economici che promuovono, l’uno, la mondializzazione del capitale (sostenuto dal partito Democratico), l’altro l’industrializzazione (sostenuto da Trump e da parte del partito Repubblicano). Mentre il primo induce a eliminare ogni ostacolo con la guerra, il secondo utilizza la minaccia della guerra per riequilibrare gli scambi in un’ottica nazionale.
Nel 2001, adducendo come pretesto la risposta agli attentati dell’11 settembre,
il presidente George W. Bush lancia una “lunga guerra” contro il “Medio
Oriente Allargato”. Una guerra che, 17 anni dopo, in Siria e nello Yemen
non è ancora terminata. Il segretario alla Difesa, Donald Rumsfeld, teorizza
il concetto di guerra totale, in particolare abolendo il la distinzione tra “civili”
e “militari”.
Nel testo precedente USA: imperialismo contro ultra-imperialismo abbiamo sostenuto che, deindustrializzando il Paese, l’ultra-imperialismo statunitense ha indebolito la potenza degli Stati Uniti come nazione. Il progetto di partenza dell’amministrazione Trump era procedere a una ricostruzione economica su base protezionistica. Due campi si stanno fronteggiando: l’uno, fautore di una rinascita economica degli USA, l’altro che auspica una conflittualità militare sempre più dichiarata. Opzione, quest’ultima, che sembra essere portata avanti principalmente dal partito Democratico. La lotta tra i Democratici e la maggioranza dei Repubblicani può così essere letta come conflitto tra due tendenze del capitalismo statunitense, una fautrice della mondializzazione del capitale, l’altra che spinge per il rilancio dello sviluppo industriale di un Paese economicamente in declino.
Quindi, il ripristino di competitività dell’economia statunitense è, per la presidenza Trump, obiettivo prioritario. La volontà della sua amministrazione di mettere in atto un nuovo protezionismo deve essere interpretata come un atto politico, uno strappo nel processo di mondializzazione del capitale, ossia una decisione eccezionale, nel senso sviluppato da Carl Schmitt: « sovrano è chi decide sullo stato d’eccezione». La decisione di Trump appare come tentativo di rottura rispetto alla regola della trans-nazionalizzazione del capitare, come atto di ripristino della sovranità nazionale USA dinnanzi alla struttura imperiale organizzata attorno agli Stati Uniti.
Il ritorno alla politica
Il tentativo dell’amministrazione Trump si pone come un’eccezione di fronte alla mondializzazione del capitalismo. Si manifesta come un tentativo di ristabilire il primato della politica, a seguito del dato di fatto che gli Stati Uniti non sono più la super-potenza economica e militare i cui interessi si confondono con l’internazionalizzazione del capitale.
Il ritorno alla politica si traduce innanzitutto con la volontà di attuare una politica economica nazionale, di rinforzare l’attività in territorio USA grazie a una riforma fiscale destinata a ristabilire i termini di scambio tra gli Stati Uniti e i concorrenti. Attualmente, questi termini sono nettamente deteriorati a discapito degli Stati Uniti: il deficit commerciale globale degli Stati Uniti è peggiorato nel 2017 del 12,1% e ammonta a 566 miliardi di dollari. Sottraendo l’eccedenza nei servizi e limitandosi unicamente agli scambi di beni, il saldo negativo sale addirittura a 796,1 miliardi di dollari. Ovviamente, il deficit più imponente è con la Cina: nel 2017 ha raggiunto il record di 375,2 miliardi di dollari per i soli beni.
La lotta al deficit del commercio estero permane centrale nella politica economica dell’amministrazione USA. Privata dal parlamento della riforma economica fondamentale – il Border Adjusment Tax, destinato a promuovere il rilancio economico grazie a una politica protezionistica – l’amministrazione Trump tenta di riequilibrare gli scambi caso per caso, con azioni bilaterali, esercitando pressioni sui partner economici, soprattutto sulla Cina, per indurli a diminuire le esportazioni verso gli Stati Uniti e aumentare le importazioni dagli Stati Uniti. Importanti negoziati si sono da poco conclusi. Il 20 maggio Washington e Pechino hanno annunciato un accordo per ridurre significativamente il deficit commerciale USA negli scambi con la Cina. L’amministrazione Trump pretendeva una riduzione di 200 miliardi di dollari dell’eccedenza commerciale cinese e una forte riduzione dei dazi. Trump ha minacciato di imporre dazi per 150 miliardi di dollari sulle importazioni di prodotti cinesi, e, per ritorsione, la Cina ha annunciato di voler prendere di mira le esportazioni USA, soprattutto soia e aereonautica.
Contrasto strategico tra Democratici e Repubblicani
Il contrasto tra la maggioranza del Partito Repubblicano e i Democratici poggia, complessivamente, sull’antagonismo di due visioni strategiche, a livello economico e a livello militare, due aspetti intimamente collegati.
Per l’amministrazione Trump il risanamento dell’economia è basilare. La questione militare si pone come sostegno a una politica economica protezionistica, come momento tattico della strategia di sviluppo economico. Questa tattica consiste nell’incrementare conflitti locali, destinati a frenare lo sviluppo di nazioni concorrenti e a sabotare progetti globali che si contrappongono alla struttura imperiale degli Stati Uniti, come, per esempio, la Nuova Via della Seta – una serie di “corridoi” ferroviari e marittimi per collegare la Cina all’Europa, aggregandovi la Russia. I livelli economico e militare sono strettamente collegati, ma, contrariamente alla posizione dei Democratici, permangono distinti. La finalità economica non viene confusa con i mezzi militari messi in atto. La riorganizzazione dell’economia nazionale è condizione che permette di evitare o, perlomeno, di posporre un conflitto globale. La possibilità di una guerra totale diviene mezzo di pressione per imporre nuove condizioni nei termini di scambio con i partner economici. L’alternativa offerta ai concorrenti è la scelta tra il consentire agli Stati Uniti la ricostituzione delle proprie capacità offensive, a livello di forze produttive, oppure l’essere rapidamente coinvolti in una guerra totale.
La distinzione tra obiettivi e mezzi, tra presente e futuro, non appartiene più al modo di operare dei democratici. I momenti strategici e tattici si confondono. La soppressione di questi due aspetti è caratteristica dello schema della “guerra assoluta”, di una guerra sbarazzata di ogni controllo politico, che obbedisce unicamente alle proprie leggi, quelle dell’”ascesa fino ai limiti estremi”.
Il 18 febbraio 1943, al Palazzo dello Sport di Berlino, Joseph Goebbels
proclama la «guerra totale». Di fronte ai rovesci militari (la disfatta di
Stalingrado), tutte le forze della nazione tedesca, senza eccezioni,
devono essere messe in gioco per vincere il bolscevismo, veicolo della
dittatura ebrea.
Verso una guerra “assoluta”?
Conseguenza della facoltà del Partito Democratico di bloccare il rilancio interno è che, se gli Stati Uniti rinunciano a svilupparsi economicamente, l’unico obiettivo che rimane loro è impedire ai concorrenti e agli avversari, con ogni mezzo, compresa la guerra, di farlo. Tuttavia, lo scenario non è più quello dell’èra Bush o dell’èra Obama, di guerre limitate, di aggressione a medie potenze già indebolite, come l’Iraq, bensì quello della “guerra totale” – secondo il concetto del teorico tedesco Carl Schmitt – ossia di un conflitto che richiede la mobilitazione completa delle risorse economiche e sociali del Paese, come furono quelli del 14-18 e del 40-45.
La guerra totale può però acquisire, a causa dell’esistenza dell’arma nucleare, una nuova dimensione, quella della nozione, sviluppata da Clausewitz, di «guerra assoluta».
Secondo Clausewitz, la «guerra assoluta» è la guerra conforme al proprio concetto, è volontà astratta di distruggere il nemico. La «guerra reale», invece, è lotta nella sua attuazione concreta, impiego limitato di violenza. Clausewitz contrapponeva le due nozioni, perché «l’ascesa fino ai limiti estremi», caratteristica della guerra assoluta, non poteva che essere un’idea astratta, riferimento per valutare le guerre concrete. Nel quadro di un conflitto nucleare, la guerra reale diventa invece conforme al concetto di guerra. La guerra assoluta perde lo status di astrazione normativa per trasformarsi in un reale concreto.
Così, come categoria di una società capitalista sviluppata, l’astrazione della guerra assoluta funziona in concreto, si trasforma in un’«astrazione reale», ossia in un’astrazione che non rientra più soltanto nel campo del processo di pensiero, bensì risulta anche dal processo reale della società capitalista.
La “guerra assoluta” come “astrazione reale”
Secondo il concetto espresso dal fenomenologo italiano Enzo Paci, «la caratteristica fondamentale del capitalismo … risiede nella tendenza a far esistere categorie astratte come categorie concrete». Già nel 1857 Marx nei Gundrisse (Fondamentali) scriveva che «le astrazioni, le più generali, nascono appieno solo con lo sviluppo concreto più ricco…».
Questo processo di astrazione dal reale non esiste soltanto tramite le categorie della «critica dell’economia politica», quali quelle sviluppate da Marx, come il «lavoro astratto», ma riguarda l’insieme dell’evoluzione della società capitalista. Così la nozione di “guerra assoluta” abbandona, attraverso i rapporti politici e sociali contemporanei, il terreno esclusivo dell’astrazione di pensiero per diventare anche una categoria che acquisisce esistenza reale. Essa non riveste più unicamente la funzione di orizzonte teorico, di «concreto di pensiero», ma diviene un reale concreto. La guerra assoluta cessa così di essere un semplice orizzonte teorico, un limite concettuale, per diventare un modo di esistenza, una forma possibile, effettiva di ostilità tra le nazioni.
Già in un articolo del 1937, Nemico totale, guerra totale, Stato totale, Carl Schmitt suggerisce che i progressi tecnici e politici contemporanei concretizzano un’identità tra la realtà della guerra e l’idea stessa dell’ostilità. Quest’identificazione conduce a un aumento degli antagonismi e culmina nella «ascesa fino all’estremo» della violenza. Equivale a dire implicitamente che la «guerra reale» diviene conforme al proprio concetto, che la «guerra assoluta» perde lo status di astrazione normativa per realizzarsi in «guerra totale».
Allora, il rapporto guerra-politica si rovescia, la guerra non è più il concetto sviluppato da Clausewitz per caratterizzare la propria epoca storica, ossia la forma più alta della politica e il suo compimento momentaneo. La guerra totale, diventando guerra assoluta, sfugge al calcolo politico e al controllo dello Stato. Non è sottoposta ad altro che alla propria logica, «non obbedisce che alla propria grammatica», quella dell’ascesa fino agli estremi. Così, una volta scatenata, la guerra totale si sottrae al congegno di sicurezza rappresentata dalla decisione politica, allo stesso modo in cui la mondializzazione del capitale sfugge al controllo dello Stato nazionale, delle organizzazioni sovranazionali e, più in generale, a ogni forma di regolamentazione.
Per Donald Trump, le forze armate non servono più a distruggere gli Stati
che non partecipano alla mondializzazione del capitale, per scelta o per
necessità, ma per minacciare qualunque potenza voglia frenare
la reindustrializzazione degli Stati Uniti.
Dalla “guerra al terrorismo” alla “guerra assoluta”?
Il 19 gennaio 2018, parlando all’Università Johns Hopkins nel Maryland, il segretario della Difesa del governo Trump, James Mattis, ha svelato la nuova strategia di difesa nazionale, poggiata sull’eventualità di uno scontro militare diretto tra Stati Uniti, Russia e Cina. Nel suo discorso, Mattis ha precisato che si tratta di un cambiamento storico, rispetto alla strategia perseguita negli ultimi due decenni: quella della guerra al terrorismo. Mattis ha così precisato: «È la concorrenza tra le grandi potenze – e non il terrorismo – che ora è l’obiettivo prioritario per la sicurezza nazionale americana».
Un documento declassificato di 11 pagine, che descrive in termini generali la Strategia della Difesa Nazionale, è stato consegnato alla stampa. Una versione confidenziale più lunga, con le proposte dettagliate del Pentagono per un aumento massiccio delle spese militari, è stata sottoposta all’esame del Congresso. La Casa Bianca chiede un aumento di 54 miliardi di dollari del budget militare, giustificandolo con il fatto che «oggi stiamo uscendo da un periodo di atrofia strategica, consapevoli che il nostro vantaggio militare competitivo si è eroso». Il documento prosegue: «La potenza militare – la modernizzazione della forza d’urto nucleare – implica un incremento di opzioni suscettibili di contrastare le strategie coercitive dei concorrenti, fondate sulla minaccia di ricorrere ad attacchi strategici nucleari e non-nucleari».
Per l’amministrazione Trump, il dopo-Guerra Fredda è terminato. Il periodo in cui gli Stati Uniti potevano dispiegare la propria forza militare quando volevano, intervenendo a loro piacimento, non è più di attualità. «Oggi, tutti i domini sono oggetto di contesa, l’aria, la terra, il mare, lo spazio e il cyber-spazio».
“Guerra assoluta” o guerra economica
La possibilità di una guerra degli Stati Uniti contro Russia e Cina, ossia lo scoppio di una guerra assoluta, fa parte delle ipotesi strategiche, sia dell’amministrazione Usa, sia degli analisti russi e cinesi. Questa facoltà appare come il filo conduttore che sottende e rende comprensibile la politica estera e le operazioni militari di questi Paesi, per esempio, l’estrema prudenza della Russia nelle reazioni alle provocazioni degli Stati Uniti in Siria, indugi che non possono essere dovuti a indecisione o rinuncia. La difficoltà della posizione russa non deriva dalle divisioni interne, dal rapporto di forza tra le tendenze mondialiste e nazionaliste, bensì dalle divisioni interne statunitensi, che oscillano tra guerra economica e guerra nucleare. L’articolazione tra minacce militari e nuovi negoziati economici sono proprio due aspetti della nuova “politica di difesa” USA.
Elbrige Colby, assistente del segretario della Difesa, ha tuttavia affermato che, malgrado il discorso di Mattis ponga chiaramente l’accento sulla rivalità con Cina e Russia, l’amministrazione Trump vuole «proseguire nella ricerca di ambiti di cooperazione con queste nazioni». Colby ha così affermato: «Non si tratta di un confronto, bensì di un modo di procedere strategico, di prendere atto della realtà competitiva e del fatto importante che “ buoni steccati fanno buoni vicini”».
Questa politica, perseguendo il ristabilimento delle frontiere, si oppone frontalmente alla visione imperialista USA. Quest’ultima mette di fronte a un’alternativa, ben riassunta dal Washington Post: la persistenza di un Impero statunitense «garante della pace mondiale» oppure la guerra totale. Questa visione si oppone al ristabilimento di egemonie regionali, ossia di un mondo multipolare il cui risultato, secondo il Washington Post, «sarebbe la futura guerra mondiale».
Jean-Claude Page
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