Il rischio e gli interessi – Il rischio di perdere il capitale è implicitamente incluso nelle clausole del contratto di credito.

di Davide Gionco

 

I prestiti ad interesse nella storia
Oggi sembra a tutti normale ed evidente che chi presta del denaro abbia il diritto di ricevere un compenso sotto forma di un tasso di interesse sul capitale prestato.

In realtà non è sempre stato così. Nell’antica Bibbia si dice chiaramente “Non farai al tuo fratello prestiti a interesse, né di denaro, né di viveri, né di qualunque cosa che si presta a interesse.” (Deuteronomio 23,20)

Anche nel Corano è vietato il prestito ad interesse. Per questo motivo nella finanza islamica chi presta denaro entra, di fatto, in società con il destinatario del prestito. In tal modo potrà ottenere indietro il suo capitale più eventuali utili conseguito grazie al buon impiego della somma di denaro.
Mentre nella finanza occidentale il creditore non è responsabile di come il denaro verrà utilizzato dal debitore, nella finanza islamica chi fa un prestito “se la gioca” in modo solidale con il destinatario. Il buon fine economico dell’operazione chiama quindi direttamente in causa il creditore come co-responsabile, nel bene o nel male, dell’operazione.

L’antropologo David Graber ha scritto sull’argomento un’importante opera “Debito. I primi 5000 anni”, che invitiamo tutti a leggere, trattandosi di un argomento tutt’altro che scontato, che da sempre caratterizza le società umane.

Se in passato, per secoli, l’umanità ha vietato il prestito ad interesse, delle ragioni profonde ci saranno.
Ma veniamo ai giorni nostri.

 

Perché i creditori chiedono un interesse

Per quale motivo le banche o le società finanziarie che prestano denaro chiedono che venga restituito il capitale con l’aggiunta di un interesse?

Di per sé l’atto di prestare denaro non produce beni e servizi ovvero non produce ricchezza reale, ciò di cui abbiamo bisogno concretamente per vivere.
Il prestito di denaro, però, consente a chi non avesse quella somma di denaro a disposizione di poter fare immediatamente un investimento, per una qualche propria utilità.
Nello stesso tempo il creditore si fa carico di un rischio, il rischio che quella somma di denaro non venga mai completamente restituita, per varie ragioni (fallimenti, deperimento dei beni di cui si è finanziato l’acquisto, ecc.).

Il tasso di interesse che viene richiesto dal creditore, quindi, rappresenta una “quota assicurativa” sul rischio di una perdita totale o parziale di quel capitale. Per questo motivo, infatti, i creditori prima di prestare il denaro chiedono tutta una serie di garanzie al destinatario, al fine di ridurre al minimo i rischi a proprio carico.
Ad esempio se un creditore chiede un tasso di interesse del 5%, significa che ha calcolato il rischio di perdere mediamente 5 euro ogni 100 euro prestati. O, se vogliamo, che il 5% dei prestiti effettuati porti alla perdita del capitale prestato.

In realtà il rischio effettivo sarà inferiore, in quanto il creditore dovrà anche investire del proprio tempo lavorativo, che vorrà farsi remunerare, e pagare altre persone per istruire le pratiche ed effettuare le necessarie valutazioni di rischio.
All’atto pratico, quindi, potremmo avere che i costi fissi incidono per il 2%. Di conseguenza la “quota assicurativa” vale il 3% del capitale, che comprende il rischio di perdere non solo il 100% del capitale prestato, ma anche il 2% di costi fissi. E naturalmente esistono tutte le casistiche di perdita solo parziale del capitale prestato.
In ogni caso la logica del discorso non cambia.

A livello individuale il contratto di credito prevede il prestito di 100 euro ed il rimborso di 105 euro.
A livello collettivo, invece, tenendo conto del rischio statistico di un mancato rimborso del credito, il bilancio diventa che l’insieme dei creditori presta 100 euro, attendendosi un rimborso di 102 euro.

I 2 euro in più sono i costi fissi più gli utili; i 3 euro che mancano sono l’incidenza media delle perdite di capitale rispetto al capitale investito.

Dopo di che se l’investitore è bravo e riesce a ridurre le perdite al di sotto del 3%, aumenteranno i suoi utili.
Se, invece, le perdite supereranno il 4%, l’investitore avrà complessivamente perso l’1% di quanto investito, avendo dovuto pagare anche il 2% dei costi fissi.

 

Il diritto implicito a non ripagare il debito

Al di là delle considerazioni matematiche, è fondamentale comprendere questo concetto: l’investitore che presta denaro ha già messo in conto il rischio di perderlo.
Il rischio di perdere il capitale è implicitamente incluso nelle clausole del contratto di credito.
E questo anche se, legalmente, avrebbe diretto a ricevere indietro il capitale con gli interessi, come pattuito.

La conseguenza di questo concetto è che i debitori hanno per contratto un implicito “diritto a non rimborsare il debito”.
Se non esistesse questo diritto implicito, infatti, i creditori non avrebbero bisogno di istruire pratiche, di investire del proprio tempo e di includere una quota assicurativa (il 5-2 = 3%) nel contratto di credito.
Se richiedono un interesse, allora significa che questo diritto è contrattualmente contemplato.

 

I tassi di interesse sul debito pubblico

Coloro che investono in titoli di stato chiedono all’Italia un tasso di interesse superiore a quello che chiedono alla Germania, lo fanno proprio perché ritengono che l’Italia abbia un rischio maggiore di insolvibilità. Il differenziale fra questi tassi di interesse (percentuali di rischio) è il famoso “spread”.
Gli investitori sanno che sia l’Italia che la Germania hanno il “diritto implicito” di non restituire i capitali ricevuti e gli investitori ritendo che la probabilità che l’Italia si trovi nelle condizioni di non restituire il prestito siano superiore a quella della Germania.

Gli investitori in titoli di stato italiani hanno percepito dal 1990 al 2008 ben 1’605 miliardi di euro solo di interessi, senza mai subire il rischio di perdere l’investimento.

Questo significa che durante tutti quegli anni, così come per i decenni precedenti e quelli successivi, l’Italia è stato un “cliente a rischio zero”, che non meriterebbe di pagare un tasso medio di interesse sul debito del 4% (livello attuale).
Oppure significa che se oggi paghiamo un tasso di interesse medio del 4%, lo facciamo perché siamo un paese a reale rischio di insolvenza, quindi con il “diritto implicito” a non rimborsare i titoli di stato in scadenza, come peraltro suggerisce il premio Nobel per l’economia Joseph Stiglitz.
Se esiste questo “diritto a non rimborsare il debito”, allora lo Stato potrebbe anche politicamente decidere di non pagare più i titoli di stato in scadenza, di pagarne solo una parte o di ripagare solo la quota capitale, senza pagare gli interessi sui titoli in scadenza.
Se solo lo Stato decidesse di non rimborsare la sola quota interessi, che attualmente ci costa 80-90 miliardi di euro l’anno, si potrebbe permettere maggiori investimenti pubblici che consentirebbe di creare almeno 3 milioni di posti di lavoro in più rispetto ad oggi.
Gli investitori non perderebbero il capitale investito, mentre l’Italia potrebbe dimezzare il tasso di disoccupazione.
E se anche perdessero una parte del capitale, che hanno investito a loro consapevole rischio, perderebbero una parte dei risparmi, denaro di cui non hanno un bisogno essenziale per vivere, mentre dall’altra parte ci sarebbero dei lavoratori disoccupati che, finalmente, troverebbero un posto di lavoro, potendo finalmente mantenere la propria famiglia con il proprio lavoro.

Si tratta, come evidente, di una scelta politica.
Da che parte stiamo, dalla parte degli investitori finanziari o dalla parte dei disoccupati?

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