L’insostenibilità economica e sociale della Grande Distribuzione Organizzata.

di Davide Gionco

Negli ultimi anni siamo stati tutti confrontati, come consumatori o come imprenditori, alle nuove forme “efficienti e convenienti” di commercio, finalizzate ad abbattere i prezzi, in modo da vincere la concorrenza ed offrire ai consumatori dei prezzi sempre più convenienti.

 

Il modello dei grandi centri commerciali
La prima “conquista” è stata la diffusione dei grandi centri commerciali.

Ci hanno permesso di risparmiare tempo, potendo trovare tutti insieme i punti vendita per ogni tipo di prodotto, a prezzi inferiori a quelli dei negozi di quartiere.
I quali, di conseguenza, continuano a chiudere, rendendo i quartieri delle nostre città dei dormitori o delle zone desolate.

Le catene dei supermercati hanno progressivamente preso il controllo della maggior parte della distribuzione commerciale ovvero dell’organizzazione che mette in contatto i produttori con i consumatori.
Di conseguenza la maggior parte dei produttori per poter vendere i propri prodotti è obbligata a passare per le centrali di acquisto della Grande Distribuzione Organizzata (GDO).
Attualmente chiunque voglia vendere dei beni alimentari nei supermercati è obbligato a passare per sole 8 società che determinano i prezzi e la qualità dei prodotti che sono disponibili ad acquistare.

Siamo comunque fortunati, in quanto nella vicina Francia 4 sole centrali d’acquisto (Intermarché Groupe Casino, Carrefour+DIA, Auchan+Système U, E.Leclerc) coprono quasi il 90% del mercato.
Non si tratta ancora, per fortuna, di un controllo assoluto del mercato, ma certamente di un controllo preponderante.
Le centrali di acquisto impongono ai produttori gli standard di qualità (diametro della zucchina, colore delle carote, ecc.), le retribuzioni, i tempi di pagamento. Decidono se rivolgersi ai produttori nazionali o esteri. Decidono se le nostre imprese devono sopravvivere o fallire.
Le stesse centrali di acquisto possono imporre, entro certi limiti, degli standard di qualità anche ai consumatori, i quali devono adeguarsi a quanto stabilito dalle poche centrali di acquisto, non disponendo di alternative praticabili. Ad esempio provate, se ci riuscite, ad acquistare delle mele biologiche, saporite, piccole e bitorzolute, “naturali”, in un supermercato, che pure sono ottime per fare composte o come frutta cotta.

La concentrazione in poche mani della grande distribuzione organizzata riduce la libertà economica dei consumatori e la redditività dei produttori, a solo vantaggio di chi ha monopolizzato il mercato.

 

Le vendite sottocosto

Negli ultimi anni di crisi economica si sono moltiplicate le vendite con sconti improponibili o addirittura sottocosto, con grande apparente convenienza dei consumatori.

Chi di noi sarebbe disposto a lavorare “sottocosto”? Se lavoriamo per vivere, il “sottocosto” è una condizione che ci impedisce di avere un reddito, insostenibile.
Proviamo ad immaginare cosa stia dietro a queste politiche commerciali.
Non stiamo parlando delle normali “offerte di lancio” di nuovi prodotti, strategia conosciuta da tempo, ma della eccessiva diffusione e ripetizione di queste modalità di vendita. Non esistono statistiche a riguardo, ma è esperienza di noi tutti che le vendite sottocosto siano notevolmente aumentate in Italia negli ultimi anni, mentre questo non avveniva una volta in questi termini e non avviene in paesi come la Svizzera.

Cosa potrebbe economicamente giustificare delle vendite con grandi sconti o addirittura sottocosto oltre alle iniziative promozionali?

Agli addetti del settore sono note le ragioni per cui le grande catene di distribuzione possono permettersi di vendere prodotti al prezzo di costo, senza ricarichi.
Se lo possono permettere giocando su 2 meccanismi.
Il primo sono i ritardi sui pagamenti dei fornitori. Ad esempio i fornitori vengono pagati puntualmente a 180 giorni.
Questo significa che se i consumatori acquistano oggi 100 euro di pasta, la GDO disporrà di un PRESTITO A TASSO 0% di 100 euro, da investire sui mercati finanziari nei seguenti 6 mesi.
In quei 6 mesi la GDO avrà guadagnato magari il 2%, ovvero 2 euro, potendo poi utilizzare i 100 euro per pagare il produttore di pasta.
Le società della grande distribuzione organizzata, quindi, non sono propriamente dei commercianti, quanto soprattutto delle società finanziarie, le quali usano i flussi di cassa delle vendite come fonte di finanziamento delle proprie attività.

Un’altra possibilità è che la GDO imponga ai fornitori di lavorare essi stessi sotto costo.
Un’azienda agricola che riceva dalla GDO la richiesta di ridurre del 10% il prezzo di vendita dell’insalata sarà posta di fronte al dilemma di scegliere se accettare la riduzione del prezzo di vendita o andare incontro al fallimento per mancanza di clienti alternativi.
Riduzione del prezzo significa che dovrà ridurre i propri utili, fino anche a zero o fino alla perdita. Oppure potrà ribaltare la riduzione di compenso sui propri dipendenti, chiedendo loro di lavorare il 10% a parità di stipendio, oppure licenziando il personale ed assumendo personale disposto ad accettare uno stipendio più basso e condizioni lavorative con inferiori tutele, magari rivolgendosi al nuovo bacino di manodopera costituito dagli immigrati dall’Africa.
L’alternativa del fallimento significherebbe non solo la perdita di lavoro per tutto il personale dell’azienda agricola, ma probabilmente anche il disastro economico della famiglia dell’imprenditore, il quale generalmente è esposto verso le banche per centinaia di migliaia di euro, ad esempio presi in prestito per rinnovare gli impianti meccanizzati delle serre. In caso di fallimento le banche si porterebbero via non solo le serre, ma anche l’abitazione privata dell’imprenditore, lasciandolo per strada e senza lavoro. Per queste ragioni, a parte i tristi casi in cui si arriva al suicidio, generalmente le riduzioni di prezzi significano un peggioramento della situazione dei lavoratori.

Dietro degli sconti eccessivi e duraturi, non promozionali, ci sono, quindi, sempre delle tragedie umane.
Lo stesso consumatore che al momento si ritiene fortunato di poter acquistare un prodotto ad un prezzo mai visto, risparmiando, domani dovrà subire le conseguenze di quella dinamica economica, patendo una riduzione di stipendio, dei diritti come lavoratore o addirittura il licenziamento.

 

Il modello Amazon e l’efficienza

La multinazionale Amazon è salita alla ribalta negli ultimi anni, imponendo un sistema di commercio elettronico fondato su acquisti online e spedizione di merci via corriere postale. Il modello di commercio è peraltro proposto da altri giganti come il cinese Alibaba.

Il meccanismo è certamente efficiente dal punto di vista organizzativo e della minimizzazione dell’uso di risorse umane. Rispetto al commercio tradizionale si evita la fatica di recarsi di persona in un negozio, si evitano i costi dell’acquisto o dell’affitto dello spazio di vendita, si evitano i passaggi intermediari, ciascuno con il propri ricarico, della catena di distribuzione. Se vogliamo si tratta di una ulteriore evoluzione rispetto al modello dei supermercati.
L’aumento di efficienza nelle attività produttive in passato (nell’agricoltura, nell’industria) ha sempre portato ad aumenti di produttività, liberando risorse lavorative per aumentare la produzione in altri settori dell’economia. Tuttavia con la rivoluzione del commercio elettronico compaiono degli elementi nuovi.

Il primo elemento è la perdita dei rapporti umani, che già con il sistema della GDO erano stati fortemente ridotti. Il commerciante non è solo un rivenditore di merce, ma è anche un consulente, un esperto sull’utilizzo delle merci vendute. Gli inservienti di un centro commerciale vendono una tale varietà di prodotti da non essere sempre in grado di offrire ai propri clienti le necessarie competenze per consigliare la scelta del prodotto più confacente alle esigenze del cliente.
Tale rapporto viene totalmente a cessare con il modello Amazon, essendo i contatti fra venditore e cliente limitati alla finestra dialogo di un sito internet. Anzi, Amazon probabilmente acquisterà dei “big data” da Facebook per conoscere i gusti e le preferenze del cliente e “consigliare” gli acquisti da effettuare. Il cliente non è più una persona da servire e da soddisfare, ma un banale obiettivo commerciale.
Come nella GDO, quando aziende come Amazon avranno conquistato larghe fette di mercato, potranno imporre a produttori e clienti i propri standard di qualità. E ora non parliamo soltanto di qualità degli alimenti, ma anche di cultura, quando Amazon si arroga il diritto di “consigliare” i libri da acquistare.

Il secondo elemento sono le condizioni dei lavoratori, i quali hanno sempre meno rapporti di tipo umano e sempre di più rapporti alienanti con software e tempi contingentati. Inoltre la dimensione multinazionale di Amazon rende estremamente difficili le tutele dei lavoratori dal punto di vista giuridico e sindacale. E quei lavoratori non sono delle macchine, ma sono delle persone della nostra stessa società.

Il terzo elemento sono i rapporti con lo Stato, rappresentante democratico di noi cittadini, i cui organismi sono sottoposti a difficili negoziati di tipo fiscale con queste multinazionali e nello stesso all’azione di influenza delle potenti lobbies sulle decisioni politiche del paese, cosa che i commercianti di quartiere non potevano fare.

Il quarto elemento è la perdita della socialità. I negozi di quartiere sono luoghi che vitalizzano le nostre città, in cui incontriamo persone, in cui incontriamo un commerciante di fiducia che ci saprà consigliare sull’acquisto veramente nel nostro interesse, in “perdiamo tempo” a chiacchierare, attività inefficiente dal punto di vista produttivo, ma estremamente umana e parte del nostro vivere.

I bassi prezzi dei prodotti, possibili grazie all’efficienza organizzativa del modello Amazon, in realtà nascondono dei costi occulti di tipo sociale, che non vengono misurati dal prezzo.

 

Quale futuro?

Dal punto di vista politico ritengo urgente che, al fine di preservare il ruolo sociale del piccolo commercio, vengano poste delle limitazioni al commercio elettronico.

E’ utile mantenere gli aspetti positivi di una migliore efficienza di distribuzione dei prodotti. Nello stesso tempo sarebbe bene evitare che il monopolio sulla distribuzione si trasformi in un monopolio sulla definizione degli standard produttivi dei piccoli produttori, ma soprattutto che porti alla chiusura dei piccoli punti vendita di quartiere.
Se il commercio elettronico diventasse uno strumento ad uso dei commercianti, facilitando i loro contatti con i diversi produttori, si manterrebbe il loro ruolo di consulenti di fiducia dei clienti ed il loro ruolo di vitalizzare i quartieri delle nostre città.
Il costo aggiuntivo delle loro prestazioni professionali sarebbe in realtà un guadagno nella nostra socialità.
Dietro ad ogni prezzo di vendita, infatti, non c’è solo un prodotto, ma tutta la società civile che ha consentito di produrlo: la nostra salute, i nostri diritti civili e politici, la nostra socialità. Non è un caso che i prezzi delle merci siano più alti proprio nei paesi del mondo con maggiore benessere.

Per quanto riguarda i rapporti con le multinazionali del commercio elettronico sarebbe necessario innanzitutto porre fine ai loro privilegi, a partire da quelli fiscali, resi possibili dalla libera circolazione internazionale delle merci e dei capitali. In secondo luogo sarebbe importante evitare la formazione di monopoli od oligopoli che consentano a poche imprese leader nella distribuzione di diventare determinanti nei confronti dei produttori e dei consumatori.

Concludiamo con un invito ai consumatori: ricordiamoci che il valore di un prodotto non è interamente misurato dal prezzo di acquisto. La conoscenza delle conseguenze sociali ed ambientali dei nostri acquisti, unita a delle scelte consapevoli, ci consentirà di preservare la nostra società, fatta di rapporti umani, di quartieri vitali e fatta di “tempo perso” a chiacchierare con l’amico negoziante, forse meno efficiente di Amazon, ma certamente più vicino al nostro cuore.

 

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