Haaretz – Contrastare la seconda ondata con i fatti, non con le idee sbagliate

di Udi Qimron*, Uri Gavish*, Eyal Shahar*, Michael Levitt* 

La scelta politica di molti governi di imporre un lockdown indiscriminato a fronte dell’epidemia da COVID-19 è stata oggetto di un limitato dibattito pubblico e, come osservato anche in ambito accademico, “molte voci critiche sono state soppresse, ignorate, bullizzate o accantonate come teorie cospirazioniste” (Georges e Romme, 2020). Eppure la discussione sui pro e contro di un lockdown dovrebbe essere intrinseca al dibattito scientifico, essenziale per la trasparenza delle decisioni politiche e andrebbe incoraggiata al fine di migliorare la nostra capacità di risposta a eventuali nuove ondate di virus patogeni.

Il giornale israeliano Haaretz ha dato voce a un gruppo di eminenti studiosi, tra i quali il premio Nobel Micheal Levitt, che esprimono una visione critica della strategia di contenimento del COVID-19 basata sul lockdown e invocano piuttosto un approccio differenziato in base alla vulnerabilità dei diversi segmenti della popolazione.

L’articolo originale è stato pubblicato in ebraico su Ha’aretz il 20 luglio 2020.  Riportiamo di seguito la traduzione della sua versione inglese.


Nel marzo di quest’anno il governo del Regno Unito ha preso seriamente in considerazione di evitare un lockdown, ma ha cambiato repentinamente idea dopo che i modelli matematici presentati dal prof. Neil Ferguson avevano predetto, senza fondamento, degli scenari apocalittici. Lo stesso tipo di modelli avevano predetto che se il governo svedese avesse continuato a rifiutare di imporre il lockdown, entro giugno i morti da COVID-19 in Svezia avrebbero raggiunto il numero di circa 100.000. La Svezia ha rifiutato questi modelli e ha coraggiosamente adottato, seppur con alcuni fallimenti iniziali, una politica democratica che ha ampiamente consentito alla vita normale di andare avanti.

Nonostante le grandi residenze protette presenti in Svezia, e le insufficienti misure protettive iniziali,  in netto contrasto con le previsioni apocalittiche il numero di morti è risultato essere pari al 6% di quanto previsto, circa 6.000 persone con un’età media di 81 anni. Metà delle vittime erano residenti delle case protette che, in Svezia, hanno un’aspettativa mediana di vita di 9 mesi dopo l’ammissione. Se in Israele fosse stata adottata una politica simile, ad esempio, questa cifra di 6.000 corrisponderebbe a un massimo di 3.000 morti, dato che la popolazione anziana in Svezia è più del doppio di quella di Israele. Per raffronto, in Israele muoiono ogni anno oltre 4.000 persone che contraggono la polmonite – cioè una media di più di 10 persone al giorno.

La diffusione dell’epidemia di COVID-19 in Svezia ha raggiunto il suo punto di saturazione senza essere soddisfatta la ben nota, ma errata, soglia di infezione del 60% della popolazione totale – il presunto livello richiesto per l’immunità di gregge. Come è successo?

Contrariamente a quanto generalmente si crede, la politica svedese non aveva l’obiettivo di far infettare quante più persone possibili. Il suo obiettivo era, ed è tuttora, quello di rendere possibile un livello di vita normale, raccomandando alle persone vulnerabili di adottare particolari precauzioni e nel contempo consentendo agli altri di essere esposti al virus e sviluppare l’immunità. Questi ultimi, che costituivano meno del 20% della popolazione, hanno completato l’immunità naturale al virus già esistente nella popolazione, arrestando così la sua diffusione.

Israele e altri Paesi che fronteggiano una seconda ondata possono adottare una politica simile a quella della Svezia o persino migliore. Una siffatta politica può fornire una rapida uscita dalla crisi e ridurre il numero delle vittime. Elenchiamo per primi i contro-argomenti.

Tre argomenti contrari all’esposizione al virus della popolazione a basso rischio

  1. L’immunità acquisita dopo l’infezione è di breve durata e pertanto non ci si può fare affidamento.
  2. Per raggiungere il punto di saturazione della diffusione dell’infezione, deve essere infettato il 60% della popolazione – una percentuale intollerabile.
  3. Il bilancio delle vittime di una tale politica sarà superiore al bilancio delle vittime dell’alternativa – ossia, il ciclico alternarsi di imposizione e di alleggerimento delle restrizioni, in accordo con i tassi osservati di infezione.

Respingiamo inequivocabilmente questi argomenti perché le evidenze scientifiche indicano che è vero l’esatto contrario. Tutti e tre si basano su idee sbagliate e coloro che hanno concepito questi errori continuano ad aggrapparvisi, portando molti paesi a catastrofi provocate dall’uomo. Confutiamo di seguito questi argomenti uno ad uno.

L’infezione da COVID-19 determina immunità a lungo termine

Il primo argomento – l’infezione non determina immunità duratura – origina da segnalazioni errate riguardanti la reinfezione in persone guarite dalla prima infezione.  Dozzine di casi di reinfezione sono stati scoperti in Corea del Sud diversi mesi fa e hanno causato molto panico. Tutti queste infezioni ricorrenti sono poi risultate essere errori del test (falsi positivi) dovuti all’incapacità del test PCR standard di distinguere tra un virus vivente e il suo residuo materiale genetico. Di oltre 20 milioni di persone infette, sono stati riportati solo pochi casi di reinfezione e la possibilità di un errore nel test non è mai stata correttamente esclusa. Che quasi nessuna reinfezione sia stata ancora accertata dopo milioni di infezioni indica in modo schiacciante che l’immunità è efficace per almeno 8 mesi dopo l’infezione (il tempo intercorso dall’emergenza virale). Non vediamo alcuna ragione per supporre che l’immunità al COVID-19 svanirà rapidamente, dato che tipicamente l’immunità dura per anni. Non c’è nulla che suggerisca che in questo particolare caso vi sarà qualche differenza.

Non è necessaria un’infezione diffusa per fermare l’epidemia

La tesi per cui il 60% della popolazione deve infettarsi e divenire immune prima che la diffusione dell’infezione si arresti è basata su un errato calcolo matematico. Il calcolo si fonda su due assunti principali:

  1. In una popolazione il tasso di contatto tra persone è lo stesso per ciascun individuo.
  2.  Il COVID-19 è un virus completamente nuovo e pertanto non c’è immunità precedente. Qualunque esposizione al virus condurrà ad una infezione.

Di recente Science, uno dei più importanti giornali scientifici, ha pubblicato un articolo che sottolinea l’assurdità sottesa al calcolo della soglia del 60%. Gli Autori affermano un fatto ovvio: per quanto riguarda i tassi di contatto, le persone non interagiscono con gli altri in modo identico; alcune hanno più contatti di altre. Ad esempio, il cassiere di un supermercato e un guidatore di taxi incontrano molte più persone del pensionato medio. Dato che le persone con molti contatti sociali sono fattori chiave nella trasmissione virale, la loro immunità contribuirà a fermare la diffusione del virus più di quella delle persone con poche interazioni sociali. I primi si infettano più presto e diventano immuni più rapidamente delle persone con scarsi contatti sociali, cosicché la diffusione del virus raggiunge la saturazione a un livello che è significativamente più basso del 60%. Ribadendo il concetto, quest’ultimo è basato sull’assunto errato di contatti sociali uniformi per tutti i membri di una popolazione.

L’evidenza più significativa, che smentisce decisamente la necessità di un tasso di infezione del 60%, è quella della pre-immunità. Ad esempio, il COVID-19 ha diversi parenti (altri coronavirus) ai quali la popolazione è stata esposta e tale precedente esposizione può fornire l’immunità a un segmento significativo della popolazione. Nell’aprile scorso due di noi scrissero un articolo sulla presunta natura di questa immunità e sull’evidenza statistica che ne indicava l’esistenza. Notammo che in diverse comunità chiuse sottoposte a test il tasso di infezione si limitava sempre al 20%, che statisticamente si allinea con il tasso massimo di infezione in queste comunità piuttosto che con coincidenze ricorrenti. Circa un mese dopo un gruppo di ricercatori ha pubblicato evidenti conferme su Cell, uno dei giornali più prestigiosi nel campo delle scienze della vita. Circa il 60% della popolazione californiana che non era mai stata esposta al COVID-19 ha cellule della memoria immunitaria che riconoscono il virus ed è quindi probabile che conferiscano immunità. Inoltre, uno studio condotto in Germania ha mostrato che tale immunità potrebbe raggiungere un livello così alto fino all’81% della popolazione. Noi riteniamo che in Israele la situazione sia persino migliore – ad esempio, per la distribuzione delle classi di età (più giovane) e il numero di bambini per famiglia (più alto). La figura precedente implica che meno del 20% della popolazione israeliana è suscettibile a un’infezione del virus, mentre l’ampia maggioranza è immune. E’ necessaria urgentemente un’indagine sull’immunità cellulare per stimare il livello di questo tipo di immunità in Israele e in altri Paesi.

Questo tasso di pre-immunità al COVID-19 risulta evidente anche dai tassi globali di infezione. Il virus ha iniziato a infettare gli esseri umani da più di otto mesi fa e l’epidemia si è già diffusa nella maggior parte del mondo. Eppure in tutti i Paesi il tasso di infezione permane sotto il 20% della popolazione generale. Questo limitato tasso d’infezione è rimasto immodificato indipendentemente dalle misure di distanziamento sociale (se adottate) come la quarantena, il lockdown locale o esteso all’intero Paese, le mascherine e così via. In Svezia, ad esempio, il tasso d’infezione non ha superato il 20% e la percentuale di persone che sono sopravvissute all’epidemia supera il 99,9% (!) della popolazione. E’ analogo il caso del Belgio, il paese con il tasso di mortalità della popolazione più alto, dove meno del 20% delle persone è stato infettato e più del 99,9% della popolazione è sopravvissuta all’epidemia.

Presupponendo che circa l’80% della popolazione israeliana abbia qualche sorta di immunità cellulare – sia dovuta a una precedente esposizione ai coronavirus sia per ragioni genetiche o per altre cause – stimiamo che l’epidemia sparirà naturalmente quando dal 5 al 15% della popolazione si sarà infettata. Le implicazioni di questi risultati sono della massima importanza. Essi richiedono l’immediata rimozione della maggior parte delle restrizioni all’economia, l’immediato ritorno alla vita normale della popolazione a basso rischio, nel contempo aiutando i gruppi ad alto rischio a ridurre il tasso dei contatti sociali (ad es. controllando in modo continuo le residenze protette e consentendo agli insegnanti diabetici di lavorare da casa).

Il tentativo di “mitigare” la pandemia comporterà un pesante tributo in termini di vite umane

Il terzo argomento – la rimozione delle restrizioni comporterà una maggior mortalità rispetto a una politica di lockdown e di restrizioni – è parimenti sbagliato. Un virus si diffonde nella popolazione fino a quando un numero sufficiente di persone non è infettato e immune, o fintanto che non si trova un vaccino. I lockdown e le restrizioni possono solo rallentare la sua diffusione (“appiattire la curva”) ma non riducono il numero totale di infezioni né la mortalità complessiva. Se c’è un rischio di sovraccaricare gli ospedali, potrebbe essere necessario rallentare la diffusione dell’infezione. Altrimenti appiattire la curva può essere solo dannoso poiché l’infezione ritorna, una volta rimosse le restrizioni. Inoltre, la protezione efficiente dei gruppi ad alto rischio è possibile solo per un periodo limitato di tempo: più lungo è il tempo, più è difficile prevenire la loro esposizione al virus. Nel lungo periodo tale politica può portare a una eccessiva mortalità. Un’altra ragione per un urgente cambiamento di politica è che sembra che in Israele il tasso di mortalità della malattia in estate sia di molte volte inferiore di quello in inverno, persino dopo aver applicato le correzioni per fattori statistici come l’aumento del numero dei test.

L’evidenza più forte del fatto che un lockdown sospende soltanto l’infezione, più che abolirla, è che l’infezione riprende dopo la rimozione, come sta ora accadendo in Israele e altrove. In Svezia, d’altro canto, non c’è una seconda ondata perché non c’è stato il lockdown. Così, la politica di imporre e alleggerire le restrizioni prolunga solamente la crisi, distrugge l’economia ed eventualmente porta a un maggior numero di vittime. Può persino continuare per anni fintanto che non è disponibile un vaccino.

Deve essere presa seriamente in considerazione l’alternativa ai lockdown e alle restrizioni

Si può presumere che la gestione della crisi da COVID-19 sarà attentamente sviscerata – sia sotto il profilo degli aspetti sanitari, sia anche alla luce dell’indignazione pubblica sullo stato dell’economia. Così tante persone in tutto il mondo hanno perso le loro fonti di reddito, di sostentamento, di dignità e di futuro. La povertà è un fattore di rischio per la mortalità molto più severo del COVID-19 e colpisce i bambini tanto quanto gli adulti. Una domanda chiave che sarà sicuramente posta è se la leadership di ciascun paese abbia mai preso seriamente in considerazione per risolvere la crisi una degna alternativa che non costerà così tante vite umane o distruggerà l’economia. Paesi come la Norvegia, l’Irlanda e il Belgio hanno già dichiarato che non imporranno ulteriori lockdown dato che l’ovvio danno sopravanza ampiamente il dubbio beneficio. Per dissipare l’incertezza economica la stessa cosa deve essere dichiarata immediatamente in Israele e negli altri Paesi.

Israele ha condizioni ottimali per far fronte alla pandemia, ora

Vi è ora l’ultima possibilità per la leadership di Israele e degli altri Paesi di dichiarare che non sarà imposto un ulteriore lockdown, né completo né parziale. Nel contesto della pandemia Israele ha enormi vantaggi rispetto alla Svezia e ad altri Paesi. La popolazione è in media molto più giovane (solo circa l’11% della popolazione ha più di 65 anni). Israele ha eccellenti servizi medici e capacità logistiche per gestire pazienti ospedalizzati in condizioni severe. L’estate, che probabilmente ha anche un effetto positivo sulla diffusione del virus e sul suo tasso di mortalità, è particolarmente lunga. In aggiunta, nel Medio Oriente appare esservi un’alta immunità naturale, forse come risultato di un’alta esposizione ai comuni virus del raffreddore (mentre i Paesi dell’Europa occidentale potrebbero aver avuto punti privi di immunità a causa di una esposizione deficitaria a questi virus). Alla luce delle sue ottime condizioni di apertura, Israele può ora perseguire una politica che protegge le popolazioni vulnerabili, al contempo sforzandosi di completare il livello immunitario necessario ad arrestare la diffusione del virus, ben prima della soglia del 60%.  Così, Israele potrà arrivare alla fine della crisi nei prossimi mesi, prima dell’arrivo dell’inverno, dando così un esempio al resto del mondo.

Udi Qimron è il Direttore (eletto) del Dipartimento di Microbiologia clinica e Immunologia, Facoltà di Medicina, Università di Tel-Aviv

Uri Gavish è un Fisico, esperto di analisi algoritmica e consulente biomedico

*  Eyal Shahar è professore emerito di epidemiologia, Università dell’Arizona

*  Michael Levitt è vincitore del Premio Nobel (per la Chimica, 2013) e professore di Biologia Strutturale, Università di Stanford


Traduzione di Rosa Anselmi per Vocidallestero
http://vocidallestero.blogspot.com/2020/08/haaretz-contrastare-la-seconda-ondata.html

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