La “dittatura” (e l’ossessione) della concretezza…

di Piero Dominici
29.12.2018

La “dittatura” (e l’ossessione) della concretezza…e la progressiva marginalizzazione del pensiero e di tutto ciò che è “teorico”, cioè – secondo le narrazioni dominanti – “inutile”.

 

Prima di iniziare la nostra riflessione, partiamo dalle definizioni:

Il Dizionario Zingarelli definisce la concretezza in questi termini:

Concretezza: caratteristica di chi e di ciò che è concreto.

Concreto: [vc. dotta, lat. concrētu(m), part. pass. di concrēscere ‘condensarsi, indurire, coagularsi’ ☼ av. 1327]

A agg.

1 (lett., raro) Denso, compatto, solido, rappreso: lo mescolerei co’ sughi concreti di luppoli, e di cicoria (F. REDI).

Che è individuabile mediante l’esperienza sensibile: oggetti concretiCONTR. astratto | Che ha uno stretto legame con la realtà: passare dalle astrazioni ai fatti concreti Pratico: esperienza concreta; è un uomo concreto; CONTR. teorico | Preciso, chiaramente determinato: progetto concreto; idea concreta | in concreto, (ellitt.) in modo concreto, da un punto di vista concreto | nome concreto, nella grammatica, quello che indica cose reali o immaginate come tali; CONTR. astratto.

3 arte concreta, indirizzo artistico nato all’interno dell’astrattismo, caratterizzato da un orientamento più razionalmente geometrizzante. SIN. concretismo.

4 musica concreta, quella basata sull’impiego di rumori naturali che abbiano subito diverse manipolazioni elettroacustiche.

|| concretamente, avv. In modo concreto, da un punto di vista concreto; in pratica.

B s. m.

  • Ciò che è concreto: andare dall’astratto al concreto; attenersi al concreto.

 

Al di là delle attività accademiche e di ricerca, mi capita molto spesso di andare in aula come docente/formatore e di fare formazione/aggiornamento a manager, dirigenti, funzionari PA, dirigenti scolastici, insegnanti etc. Con tutte le differenze, le specificità e le sfumature del caso, sono costretto a rilevare, ogni volta, come l’elemento che, in genere, accomuna tutte queste figure, questi ambiti professionali e lavorativi, ma anche e soprattutto queste esperienze, sia – pur nell’interesse e nella curiosità per le novità, i trends e i possibili aggiornamenti – una sorta di ossessione per la concretezza, per il “come si fa”, solo ed esclusivamente per le “soluzioni”. Tranne alcune eccezioni (ci sono sempre, ma tali restano), tutti regolarmente chiedono, solo e soltanto, “concretezza”, pretendono i “fatti”, e te lo ricordano continuamente, devono quasi sentirsi “rassicurati”.
Salvo poi, rendersi conto della valenza strategica (a tutti i livelli di analisi e della prassi) del pensiero, della teoria/delle teorie, di uno sguardo “altro”, di un approccio differente alle questioni e, più in generale, all’imprevedibilità del sociale e dell’umano, delle relazioni (complesse) sistemiche tra le Persone; salvo poi rendersi conto che, continuando a procedere nelle direzioni di sempre, con l’approccio, gli “strumenti” e le procedure di sempre, nell’illusione del controllo e della prevedibilità totali, non riusciranno mai a determinare alcun cambiamento e avranno molte difficoltà nel gestire nuovi rischi, incertezze e vulnerabilità. E così…altro che cambio di paradigma, altro che nuovo ecosistema, altro che imprese a rete, altro che sistemi aperti, altro che sostenibilità, altro che “rivoluzione digitale” …

Torniamo alla concretezza.
Pur conoscendone e comprendendone le logiche – attualmente nessuno può permettersi di non essere concreto, ormai (forse) neanche più gli artisti e i cd. intellettuali – pur conoscendone l’importanza e i perché (oltre che le retoriche), pur dovendoci fare i conti continuamente… più vado avanti e più me ne convinco: non esiste ambito/campo/settore dell’azione sociale e della prassi sociale, organizzativa e sistemica, della produzione, anche quella più creativa; non esiste “area” della nostra esistenza, dei cd. “mondi vitali”, dal lavoro alla ricerca, dall’educazione alla formazione che non venga gestita/controllata/indirizzata dalla ricerca (spesso) ossessiva, quasi compulsiva ed esclusiva della concretezza (e dell’utilità), del “ci servono soltanto cose concrete/abbiamo bisogno di essere concreti”…del “dobbiamo essere concreti”…del “noi facciamo/ci interessano solo cose concrete”.
Proprio in una fase così delicata di cambiamento dei paradigmi e di trasformazione antropologica (1996), si tratta di un’ossessione particolarmente controproducente, soprattutto, nei settori dell’educazione, della formazione, della ricerca. Tutti (ora) parlano, all’interno delle grandi narrazioni sull’innovazione e sulla cd. rivoluzione digitale (con più di qualche ripensamento), dell’importanza del pensiero, del pensiero critico e sistemico, della creatività, degli immaginari, del pensiero creativo (ops…creative thinking…bisogna dirlo in inglese, fa più effetto), perfino dell’importanza della filosofia, da sempre ostacolata e ridimensionata (insieme ad altre materie/discipline importanti), non soltanto dentro le istituzioni educative e formative.
Paradossalmente, nessuno, in questo momento, si azzarderebbe a dire/scrivere il contrario: sono tutti per il pensiero critico, sono tutti per l’immaginazione e il recupero dell’importanza delle discipline più creative nei processi educativi e formativi, sono tutti per l’interdisciplinarità e la transdisciplinarità. Sono tutti per l’empatia e l’imprevedibilità (tutti folgorati…), parlano di “cambio di paradigma”, all’improvviso si sono accorti che il “saper fare” e le competenze da soli non bastano, anche in questa civiltà ipertecnologica, anzi – come sostengo da molti anni – soprattutto in questa civiltà ipertecnologica e iperconnessa, sempre più complessa (anche questa è una delle tante formule di successo che trovate ovunque…).
Attualmente tutti, ma proprio tutti, ne parlano: il ruolo strategico/vitale dell’educazione e della formazione, l’importanza dell’immaginazione: tutte questioni di vitale importanza che, alla resa dei conti, vengono più che altro propagandate e alimentate a colpi di slogan ed “etichette di successo”, a colpi di aforismi di grandi scienziati/filosofi/scrittori e di parole-chiave che, poi, non trovano alcuna effettiva (appunto, concreta) traduzione operativa nella vita organizzativa, sociale, politica, culturale.
In realtà, al di là di certe retoriche e narrazioni egemoni, funzionali soprattutto a costruire/costruirsi una buona reputazione/immagine sia come innovatore/innovatrice che come organizzazione innovativa (ed efficiente) nel suo complesso, appare evidente come sia ancora scarsa la consapevolezza della rilevanza strategica del pensiero (e del sistema di pensiero), della speculazione, dell’immaginazione, della creatività, dell’errore e della opportunità di poter sbagliare; della complessità delle questioni, a tutti i livelli e in tutti i settori, del loro essere “complesse” e non “complicate” (Dominici 1995, 1998 e sgg.).
In realtà, quella che, non soltanto in questo contributo, ho definito la “dittatura/ossessione della concretezza”, ci sta condannando a non determinare mai (?) nessun cambiamento reale (soltanto assestamenti, nella migliore delle ipotesi), a non essere in grado di creare nessuna “vera” innovazione, se non di facciata; ci sta condannando, chissà ancora per quanto tempo, ad adeguarci/adattarci pressoché passivamente alla straordinaria trasformazione tecnologica in atto, che è prima di tutto una trasformazione antropologica (Dominici 1995-1996), delle identità, dei vissuti, delle epistemologie etc.

La dittatura/ossessione della concretezza ci sta condannando a non saper abitare l’ipercomplessità e il futuro (Dominici, 1995-2018); ci sta condannando a rifugiarci, ancora una volta, nella nostra incompletezza, nelle nostre (in)sicurezze, nella nostra incapacità o, comunque, nel poco coraggio di abbandonare le strade e i sentieri già percorsi mille altre volte; ci sta condannando a rifugiarci nei nostri pregiudizi e luoghi comuni (a qualsiasi livello), nei comportamenti e nelle scelte che hanno sempre funzionato (?), nelle “cose” che abbiamo sempre fatto in un certo modo anche perché ciò ha avuto “successo”, ha prodotto “risultati” evidenti, ha prodotto soluzioni (“soluzioni semplici a problemi complessi”) (?)…etichetta vs etica.
Ci sta condannando, in altre parole, a non determinare, a non tentare di governare, in alcun modo, quel cambiamento evocato e auspicato da tutti, salvo poi andare nelle direzioni di sempre. Una ricerca ossessiva ed esclusiva spesso portata avanti (soprattutto) proprio da coloro che – a livello di discorso pubblico – parlano di creatività, di pensiero creativo (ops…creative thinking), di innovazione, di cambiamento, di trasformazione, di digital tranformation, di approccio multidisciplinare e interdisciplinare, di cambio di paradigma, di complessità (la/le potrete trovare ovunque), negli ultimi tempi, addirittura, di “complessità del digitale” (proprio quelli che avevano associato il digitale alla semplificazione, alla nuova “cittadinanza digitale”, ad una nuova democrazia, di più alla semplicità di certi processi e dinamiche); ma nel retroscena delle loro vite lavorative e professionali e, perfino, di ricerca, continuano, in molti casi, a navigare (a vista) nelle direzioni di sempre. Insomma, almeno per ora, siamo di fronte – come detto – soprattutto a parole-chiave usate come slogan. Coloro che abitano le istituzioni educative e formative, coloro che sono nel mondo dell’alta formazione, sanno bene come vengano, sempre e comunque, richiesti i “fatti”, la “concretezza”, il “come si fa”, il “solo cose utili”; sanno bene come siano sempre richieste, solo ed esclusivamente, le “soluzioni” (e via con la proliferazione di linee guida, decaloghi, manifesti, ricette, nuovi assiomi etc.); sanno bene come (quasi) tutti siano poco interessati al “come” si arrivi alle presunte soluzioni; come se i sistemi organizzativi/sociali fossero “complicati” e non “complessi”, con il relativo ed esclusivo coinvolgimento soltanto di alcuni specifici saperi esperti. Quelli apparentemente più in grado di offrire/garantire certezze e spiegazioni razionali e “lineari”.
Pensiero, creatività, educazione, formazione continua, apprendimento, immaginazione, innovazione, centralità della Persona e dell’umano, importanza dell’errore e dell’imprevedibilità, condivisione della conoscenza e dei saperi: tutti ne parlano, tutti ne scrivono, senza peraltro essersene mai occupati (il problema – sia chiaro – non è che ne parlino, bensì che si presentino ogni volta come “esperti” di tutto e su tutto), come se in questi settori/campi non fossero richieste/necessarie conoscenze, competenze, preparazione, esperienza; tutti ne parlano, tutti ne scrivono ma, a livello di scelte e di prassi, continuano ad operare, nelle istituzioni e nelle organizzazioni in cui lavorano/coordinano/dirigono, ri-cercando soprattutto ordine, stabilità, equilibrio, conservazione, e non soltanto per ragioni di potere e di vantaggio relativo. Anche perché, nella civiltà ipertecnologica, è proprio nell’equilibrio e nella stabilità che i saperi tecnici realizzano il massimo delle loro aspirazioni e potenzialità conoscitive, in termini di controllo, sicurezza, razionalità.

Il pensiero, la teoria/le teorie, la filosofia, perfino le discipline più creative, non sono “utili”, non servono o, comunque, servono a poco: d’altra parte, come stupirsi, questo è un Paese che continua a mettere in discussione il valore della “cultura”, dell’educazione e della formazione, della preparazione. Un “pensiero” (?) che si è esteso fino all’egemonia anche con riferimento ai luoghi dell’educazione e della formazione. Prima di tutto, il “dover essere concreti”, il “come si fa”, le “soluzioni”, sempre e soltanto le soluzioni che, spesso, sono quelle di sempre, quelle che hanno funzionato in passato, magari in contesti e situazioni differenti, con concause, variabili, indicatori, parametri, Persone coinvolte, altrettanto differenti.

Vedrete, anche questa volta, in molti diranno che l’avevano sostenuto anche loro e saranno pubblicati testi/articoli in cui si sottolinea l’importanza del pensiero, della teoria/delle teorie, di una visione strategica di lungo periodo, di uno sguardo “altro” sulla realtà. Perché tutto diventa “moda”, “norma”, “mainstream”, perdendo così ogni potenzialità dirompente e ogni possibilità di creare una vera discontinuità con i modelli egemoni e con quanto già accaduto…

Concludo, chiarendo come questa non sia stata – evidentemente – una riflessione “contro la concretezza” in quanto tale (con cui – mi ripeto – non possiamo non fare i conti), bensì, come chiarito dal titolo, “contro la dittatura e l’ossessione della concretezza”. Un’ossessione che si concretizza in un approccio riduzionistico e semplicistico ai problemi, alle incertezze, all’imprevedibilità ed alla variabilità dei fenomeni sociali e organizzativi; una visione radicale della “concretezza”, senz’altro necessaria ma che, portata alle sue estreme conseguenze, si configura/si rivela, allo stesso tempo, come un ostacolo al reale cambiamento organizzativo, sociale, culturale, politico. Una cultura della concretezza e dell’evidenza con tante sfumature; una cultura del “dato” come “dato di fatto” che si fonda su un’altra cultura, quella della standardizzazione; una “cultura della concretezza” che si fonda sull’idea, ingannevole e fuorviante, che la conoscenza/le conoscenze debba essere “utile”. Una cultura della concretezza e dell’evidenza che si fonda sull’illusione di poter eliminare l’errore e l’imprevedibilità dai sistemi sociali e organizzativi. Una cultura della concretezza che, evidentemente, pur edificata a partire dai principi (assiomi) della razionalità e del controllo, presenta quei caratteri di ambivalenza e ambiguità tipici di tutti i processi sociali e culturali.

Insomma, davvero ancora poca la consapevolezza che non tutto (anzi!) sia “individuabile mediante l’esperienza sensibile” e/o l’evidenza empirica. Allo stesso tempo, poca la consapevolezza di come dovremmo sforzarci di conoscere e mettere in evidenza non soltanto ciò che è e/o ci appare “misurabile” in termini quantitativi.

In perfetta linea di continuità con quanto detto…

Come ripeto da molti anni, stiamo educando/formando/addestrando dei meri esecutori di funzioni e di regole (Dominici, 1995 e sgg.) che non sono in grado neanche di riflettere sulla natura e sui “perché” che governano tali funzioni e regole. E ciò che è ancor più preoccupante è che stiamo sempre più puntando alla costruzione/formazione di un pensiero (?) finalizzato/funzionale esclusivamente alla concretezza: un pensiero che, nella migliore delle ipotesi, si identifica con il calcolo e il raggiungimento di un risultato. Un “approccio”, pressoché egemone, che riguarda e chiama in causa direttamente anche temi e questioni relativi all’apprendimento.

Continuiamo a non prendere atto e a non saper riconoscere la complessità, la ipercomplessità (ibidem), la variabilità, l’emergente, la costante e dinamica instabilità del relazionale, del sociale, dell’umano, del vitale. Dimensioni complesse che, oltretutto, interagiscono con una nuova prassi tecnologica e con sistemi sociali sempre più innervati da sistemi di intelligenza artificiale e di automazione; in una condizione di “ritardo culturale” che ostacola la formazione, la co-costruzione, di uno sguardo “altro” e di una visione sistemica, d’insieme; un ritardo che continua a farci vedere/riconoscere/progettare/gestire le organizzazioni come “macchine” (sistemi complicati) e non come “sistemi viventi” (complessi). Ancora una volta, con poca consapevolezza che – come scrissi molti anni fa – “innovare significa destabilizzare” (cit.); e, con poca consapevolezza, che pensiero è azione (si tratta, ancora una volta, di una “falsa dicotomia”).

«Allo stesso tempo, dobbiamo essere consapevoli che l’innovazione implica un cambiamento profondo anche e soprattutto nel modo di vedere, osservare, comprendere i fenomeni, i processi, gli oggetti, le “cose” (àprospettiva sistemica): innovare significa (anche) avere il coraggio di destabilizzare** qualcosa che è –almeno in apparenza – profondamente equilibrato, stabile, radicato, ordinato e, per certi versi, ideale. Innovare costituisce sempre una sfida (essenziale) che comporta l’abbandonare certezze, visioni consolidate e comportamenti rituali, liberarsi perfino dalla stessa idea che le “cose” si fanno in un certo modo perché così hanno sempre funzionato. Storicamente (poi, lo so, ci possono essere delle eccezioni), coloro che sono al potere e hanno la responsabilità del decidere, anche a livello di organizzazioni semplici (?), difficilmente possono essere motivati/interessati ad innovare concretamente, proprio perché le dinamiche dei processi innovativi non possono che rendere meno stabili e controllabili le situazioni in cui sono coinvolti e il contesto di riferimento. E’ sempre il “fattore culturale” ad essere determinante sia nella statica che nella dinamica di sistemi sociali e organizzazioni complesse: perché, come amo ripetere sempre, i processi di innovazione camminano sulle gambe del persone» (Dominici, 1995 e sgg.)

https://pierodominici.nova100.ilsole24ore.com/2016/03/28/la-ipercomplessita-della-realta-e-limportanza-dei-dati-che-non-parlano-mai-da-soli/

Da sempre, anche in questo caso, questione culturale ed educativa!

E, a proposito di concretezza, di strade e percorsi che non vengono abbandonati…

“I primi anni della nostra vita sono caratterizzati da un lungo periodo critico di grande plasticità del cervello, un periodo cioè durante il quale questo organo è estremamente sensibile all’esperienza e cambia in funzione di essa andando a scuola dall’ambiente. Avviene poi una lenta stabilizzazione dei circuiti nervosi e la progressiva diminuzione del numero dei contatti sinaptici. I circuiti divenuti più stabili tendono a ripetere le stesse funzioni, e ciò significa che di fronte a certi stimoli esogeni o endogeni la macchina cerebrale risponde con comportamenti simili. Si generano così molte routine mentali e il cervello si avvicina sempre di più a una macchina le cui funzioni, compreso il comportamento, sono almeno “parzialmente meccanizzate” e quindi prevedibili” (Maffei L., Elogio della ribellione, 2016).

E, come ripeto ogni volta, siamo sempre sulle “spalle dei giganti”

«Se la conoscenza (nel senso moderno di know-how, di competenza tecnica) si separasse irreparabilmente dal pensiero, allora diventeremmo esseri senza speranza, schiavi non tanto delle nostre macchine quanto della nostra competenza, creature prive di pensiero alla mercé di ogni dispositivo tecnicamente possibile, per quanto micidiale». (Arendt H., 1958)

Tratto da:
https://pierodominici.nova100.ilsole24ore.com/2018/12/29/la-dittatura-e-lossessione-della-concretezza/?refresh_ce=1

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