Intervista pubblicata su http://www.atlantico.fr/ al professor Bruno Parmentier.
G – Questo mercoledì, 31 gennaio 2018, il governo ha presentato la sua legge sull’agricoltura e la distribuzione (“Progetto per l’equilibrio delle relazioni commerciali nel settore agricolo e alimentare ed un’alimentazione sana e sostenibile”) con l’obiettivo di distribuire meglio gli utili fra agricoltori, produttori e distributori. Questa legge ha qualche possibilità di raggiungere l’obiettivo?
P – Tutti hanno potuto constatare che buona parte degli agricoltori non riesce più a vivere del proprio lavoro, mentre gli industriali e, soprattutto, la grande distribuzione sopravvivono senza troppi problemi nonostante la “crisi”. Dunque la crisi non c’è per tutti, e se vogliamo conservare l’agricoltura in Francia, e quindi anche degli agricoltori, è molto urgente trovare modi efficaci per distribuire meglio i margini all’interno delle filiere alimentari.
Quote nel mercato alimentare dei 4 principali “gruppi di acquisto” nel 2016
(fonte: Kantar Worldpanel)
Ma la sproporzione delle forze coinvolte è impressionante: centinaia di migliaia di agricoltori, migliaia di industriali e, in fondo alla catena, quattro acquirenti (grandi centri di acquisto al dettaglio) che controllano quasi il 90% del mercato alimentare francese, e si riservano in qualsiasi momento di mettere i nostri agricoltori in concorrenza con altri produttori in Europa e nel mondo. E abbiamo uno stato (e l’Europa) che si rifiutano di intervenire nel “libero mercato” e addirittura teorizzano che gli agricoltori dovrebbero “confrontarsi meglio con i segnali del mercato”; si limitano a riunire gli attori, invitandoli ad essere più misurati e ad un maggiore rispetto reciproco, e di mettere in atto gli accordi conclusi, ma rifiutando qualsiasi misura coercitiva. Dobbiamo quindi tristemente temere che anche questa nuova legge brillerà per la sua inefficienza, come quasi tutte le misure intraprese dai precedenti governi … Già da ora constatiamo che, nonostante l’impegno “morale” assunto alcuni mesi fa, le attuali contrattazioni sui prezzi con le Centrali di Acquisto avvengono in modo particolarmente teso, come se nulla fosse accaduto!
I marchi riforniti dalla 3a Centrale di Acquisto francese.
Notiamo anche come l’altro obiettivo di questi “Stati generali”, l’alimentazione sana e sostenibile, sembra essere passato, spero temporaneamente, in secondo piano, nonostante la volontà di creare più spazi per le produzioni biologiche nella ristorazione collettiva, di ridurre gli sprechi di beni alimentari o ridurre l’uso di pesticidi ed i maltrattamenti degli animali. La montagna avrebbe partorito un topolino?
G.- Questa legge affronta i problemi reali? E’ necessario ricercare nello stesso tempo il cibo più economico possibile e dei buoni profitti per gli agricoltori?
P – In effetti, ci si può legittimamente interrogare sulla validità di un’idea ampiamente accettata per la quale le persone saranno tanto più felici quanto il cibo sarà più economico. Nel 1960, un lavoratore al salario minimo doveva lavorare 4 ore al giorno per potersi permettere 1 kg di pollo, oggi è sufficiente una sola ora di lavoro. Quindi, mediamente, in Francia nel 1960 si spendeva il 38% del proprio stipendio per nutrire la famiglia, mentre oggi si spende solo il 14%. Quindi si spendeva per il cibo il doppio che per l’alloggio, mentre oggi spendiamo di più per l’alloggio che per il cibo, e le giovani generazioni spenderanno più per il loro tempo libero che per il cibo. Potremmo dire che ci possiamo permettere i nostri telefoni cellulari con le economie fatte sulle spalle degli agricoltori!
Potenzialmente si tratta di una corsa senza limiti. Basti vedere che i nostri amici inglesi non spendono più del 9% del loro reddito per mangiare in casa propria, e il nordamericano solo il 7%! (Non consideriamo i Russi al 29% e gli Algerini al 44%!). Chi avrà il coraggio di dire pubblicamente che la gastronomia inglese e nordamericana non sono in cima ai nostri desidero, o il fatto, probabilmente correlato, che le spese per la salute a New York sono il doppio che a Parigi?
Abbiamo un altro stile di vita, un altro modello alimentare, un altro rapporto con le nostre campagne, che il resto del mondo ci invidia e … dovremmo affermare meglio il nostro desiderio di non cambiare! Con noi, i dipendenti impiegano un’ora per pranzare correttamente; laggiù, impiegano 10 minuti per comprare un panino anonimo e insapore con un formaggio quadrato e un prosciutto quadrato, che mangiucchieranno davanti al computer accompagnato da una bibita iper-zuccherata. Ognuno ha la propria cultura!
È giunto il momento di dire che siamo andati troppo in là con la banalizzazione, l’industrializzazione e l’impoverimento del nostro cibo, e che da oggi il nostro obiettivo collettivo deve essere mangiare meglio ed avere una migliore salute. E che per questo motivo dobbiamo spendere un po’ di denaro in più e soprattutto dedicare un po’ di tempo in più a questa attività assolutamente essenziale che è quella di mangiare bene.
Certamente si obietterà che queste sono parole per i ricchi e che i poveri, che tirano a campare, non possono permettersi certe cose… ma potremmo anche dire che per fare in modo che anche i poveri mangino meglio potrebbero esserci modi migliori che organizzare per loro promozioni per la vendita di Nutella con lo sconto del 70%, o incoraggiarli ad acquistare lasagne economiche con ragù di cavallo rumeno e piatti precotti pieni di zucchero, sale e grasso, ma senza alcun valore nutrizionale.
Potremmo ad esempio, fra l’altro (con un po’ di utopia!), pagare loro dei salari più alti o aumentare gli assegni familiari o istituire un reddito universale od offrire l’accesso gratuito alla mensa per i loro figli… O, meglio, formare i Francesi all’arte del mangiare bene, incoraggiando gli uomini a dedicare più tempo a fare la spesa e a cucinare, invece di lasciare tutte queste attività alle loro compagne…
G- Dal punto di vista individuale del consumatore, quali sarebbero i “buoni atteggiamenti” da raccomandare per alimentarsi in modo adeguato, senza entrare nella spirale della riduzione dei prezzi di cui abbiamo appena discusso, che potrebbe portare ad una riduzione generalizzata della qualità del cibo? Non possiamo anche incoraggiare i consumatori, a tale scopo, a preparare i propri pasti ed ovviare in questo modo al deficit di “educazione familiare” su questi temi.
P – A differenza di altri paesi, come ad esempio la Germania, l’occupazione femminile è oramai diffusa nel nostro paese. Di conseguenza nella maggior parte delle famiglie entrambi i genitori lavorano e inoltre è aumentato il tempo dedicato ai trasporti, per cui si sono dovuti organizzare in modo da ridurre drasticamente il tempo dedicato all’acquisto del cibo es alla preparazione dei pasti. Abbiamo quindi “inventato” i piatti pronti. L’industria agroalimentare per fabbricarli e l’ipermercato per venderli.
La catena di conseguenze è stata spettacolare: da un lato si dedica sempre meno a nutrirsi e la sicurezza alimentare a breve termine ha fatto notevoli progressi (nessuno muore dopo avere cenato), ma d’altro lato l’impoverimento della qualità nutrizionale dei nostri pasti è evidente. La frequenza dei casi di obesità e di altre malattie da “eccesso” aumenta molto rapidamente (anche se in Francia più lentamente che altrove…) e la preoccupazione regna, dal momento che non sappiamo affatto cosa mangiamo, da dove viene e come viene controllato. Gli scandali alimentari si moltiplicano, segno di questa preoccupazione.
Come riprendere il controllo della questione?
Nessuno ha insegnato alle giovani generazioni urbane come coltivare un’insalata, da dove provengono le patate fritte, cosa mangiano i polli e i maiali, che i pesci non sono quadrati. E meno ancora che le erbacce, le lumache e afidi sono una calamità per gli agricoltori e come si può convivere con loro. Inoltre non hanno imparato come fare la spesa, come scegliere dei menù bilanciati e come cucinarli. E ancora meno come riutilizzare gli avanzi.
Nessuno ha spiegato concretamente che non c’è niente di meglio (e di meno costoso) che cenare con una buona zuppa di verdure di stagione e peraltro non sanno neppure come sbucciare le verdure e quali sono quelle di stagione.
È chiaro che in questo settore abbiamo perso completamente il controllo, che i margini di progresso sono diventati enormi e che dovrebbero essere una priorità… E non sono gli spettacoli televisivi tipo Masterchef o la “Prova del cuoco” che risolveranno il problema.
Perché sembra così fuori moda affrontare per davvero questi problemi?
Perché la maggior parte dei sindacati si battono unicamente per chiedere che il costo delle mense sia sempre più economico? La conseguenza è che più della metà della carne servita nelle mense scolastiche viene dall’estero. In questo luogo fondamentale di apprendimento della cittadinanza e della solidarietà, la parola d’ordine non dovrebbe essere innanzitutto di poter mangiare prodotti del proprio territorio, il più possibile biologici?
G- Qual è il rischio attuale di vedere la situazione polarizzarsi fra un consumo di prodotti di buona qualità ad un costo sempre più elevato ed un consumo a prezzi sempre più bassi, che comporta una qualità del medesimo livello?
P – Esiste ovviamente questo rischio, abbiamo già “negozi per i poveri” che vendono “prodotti per i poveri” con un valore nutrizionale molto basso mentre stiamo attualmente assistendo a una moltiplicazione di negozi biologici, locali, equi, vegetariani, senza glutine, ecc., che non sono di per sé per persone ricche in termini monetari, ma sono certamente per ricchi a livello intellettuale… E vediamo scomparire diversi tipi di agricoltura, piccoli, familiari, locali, rispettosi dell’ambiente ed a filiera corta, mentre si affermano sempre più il modello industriale, su grande scale, specializzato in prodotti di base e per mercati mondiali. Per quanto riguarda quest’ultimo punto in Francia non abbiamo ancora visto nulla, a differenza di altri paesi dove allevamenti di decine di migliaia di ettari e fattorie di decine di migliaia di animali sono all’ordine del giorno…
Ma possiamo anche vedere le cose in modo diverso; è un errore credere che tutti mangiamo sempre le stesse cose. In realtà, stiamo assistendo a sviluppi a medio termine che non dipendono per nulla dagli effetti della moda, ma piuttosto da profondi cambiamenti culturali delle nostre società, che colpiscono sia i ricchi che i poveri, l’urbano e il rurale, le persone semplici e gli intellettuali. Prendiamo ad esempio il vino: negli anni ’50 si bevevano in Francia 140 litri a persona l’anno, oggi solo 40 litri. Non sono state le campagne anti-alcoliche che hanno compiuto questa rivoluzione, dato che gli alcolisti sono passati a vodka e birra e dato che ci sono ancora 49’000 morti l’anno in Francia per alcolismo. No, è piuttosto il rapporto culturale con il vino ad essere cambiato ed anche la viticoltura: non c’è più il gran vino rosso che macchia, l’acqua aggiunta al vino, il litrozzo di vino al pasto, il bicchiere di rosso più economico di un bicchiere di latte. Ora il vino si vende per 75 cl al prezzo minimo di 4-5 € a bottiglia… e ci sono sempre produttori di vino in questo paese. Abbiamo solo vino buono e ottimo, e consumatori, indipendentemente dalla loro classe sociale, che hanno accettato di pagare molto di più.
Lo stesso fenomeno sta accadendo per la carne e latte. L’aumento del consumo di questi prodotti di origine animale è stato spettacolare nel XX secolo, praticamente in linea con quanto avvenuto per il vino. All’inizio del secolo andavamo a lavorare per guadagnare il pane dal sudore della sua fronte, poi lo abbiamo fatto per guadagnare la bistecca, poi per mettere il burro negli spinaci e, finalmente, tutti gli operai si sono potuti permettere di mangiare come il capo.
Negli anni ’20 ogni francese consumava 20 chili di carne all’anno, negli anni ’50, 50 kg, negli anni ’80, 80 kg, e alla fine del secolo, 100 kg! Naturalmente, il settore dell’allevamento è stato organizzato per produrre un’enorme quantità di carne ad un prezzo inferiore per soddisfare questa considerevole domanda. Ma solo un ingenuo potrebbe pensare che questa evoluzione sarebbe continuata, per cui avremmo mangiato 200 kg di carne al secolo successivo fino ad arrivare a 300 kg l’anno. E’ arrivata la decrescita ed ora siamo solo più 85 kg a persona l’anno; la carne viene consumata sempre meno in quantità e sempre più in qualità. Non c’è dubbio che questa evoluzione continuerà per diversi decenni e che alla fine mangeremo molta meno carne, ma di qualità e ad un prezzo più elevato.
La vera questione politica è non diventare consapevoli di questi cambiamenti fondamentali nella nostra cultura e sostenere sia i produttori che i consumatori verso questi cambiamenti, tanto più che sono diventati necessari per il nostro pianeta? sovraffollato, che si riscalda pericolosamente e con risorse sempre più limitate?
Bruno Parmentier : consulente e conferenziere sulle questioni di agricoltura, alimentazione e fame nel mondo. Amministratore di ONG e di fondazioni. Ho 67 anni ed ho diretto dal 2002 al 2011 il Gruppo ESA (Scuola Superiore di agricoltura di Angers), numericamente la più grande realtà francese d’insegnamento superiore in agricoltura, alimentazione e sviluppo rurale. Ingeniere minerario ed ecoomista, mi ero prima professionalmente dedicato ai libri ed alla carta stampata. Ho avuto l’occasione di scoprire nell’età matura e da un punto di osservazione privilegiato le questioni riguardanti l’agricoltura e l’alimentazione in Francia e nel mondo (avevamo 40 nazionalità diverse fra gli studenti e 14 fra gli insegnanti). Ne sono usciti 3 libri di sintesi, uno sull’agricoltura, uno sull’alimentazione ed uno sulla fame. Tre libri un po’ fuori dal vedere comune, che vogliono togliere lo sguardo dalle questioni di ogni giorno per andare alle questioni essenziali, volontariamente scritti con parole semplici e non tecniche, per essere letti da “normali cittadini”.
Tratto e tradotto da:
http://nourrir-manger.com/2018/02/01/1894/
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