Oddio, oddio, chi presterà soldi all’Italia ?

di Marco Cattaneo

In questi giorni mi capita frequentemente di leggere o ascoltare commenti del seguente tenore:
“Come facciamo a pensare di spendere di più, dobbiamo soldi a mezzo mondo !!”
“Se usciamo dall’euro / non paghiamo i debiti / torniamo alla lira chi ci presterà più un centesimo ???”
“Se usciamo dall’euro e svalutiamo, sono terrorizzato per i miei risparmi !!”
E varianti sul tema.
Una prima considerazione, ben presente a chi segue questo blog, è che uno stato emittente della propria moneta non ha necessità di indebitarsi con nessuno.
Se ha bisogno di aumentare il potere d’acquisto a favore dei propri cittadini (mediante azioni di spesa pubblica diretta, oppure rendendolo disponibile a famiglie e aziende tramite minori tasse e maggiori trasferimenti) può farlo semplicemente emettendo moneta.
Il potere d’acquisto in circolazione viene in parte speso e in parte risparmiato. E proprio perché viene in parte risparmiato, è senz’altro utile che lo Stato metta a disposizione dei propri cittadini uno strumento di gestione del risparmio privo di rischi d’insolvenza, e con una remunerazione modesta ma sicura.
Il debito pubblico ha (o aveva, prima della sciagurata decisione di convertirlo in una moneta straniera, l’euro) precisamente quella funzione. Non andrebbe chiamato debito, ma qualcosa tipo “conto di risparmio presso il ministero dell’Economia”. E dovrebbe essere proposto al pubblico con remunerazioni pari all’incirca all’inflazione, o qualcosa di più (un punto, massimo due) in caso di impieghi con vincoli di durata medi o lunghi (i BTP a cinque o dieci anni, per intenderci).
Il vincolo all’incremento del potere d’acquisto in circolazione sotto forma di “debito” non è dato dalla sua dimensione in rapporto al PIL.
Esistono vincoli, ma sono di altra natura: fondamentalmente, i due seguenti.
Evitare eccessi di potere d’acquisto in circolazione, che creino inflazione troppo elevata: ma oggi in Italia siamo sotto all’1%, e la BCE stessa ci ripete quasi ogni giorno che il livello corretto deve essere “inferiore ma prossimo al 2%”. L’inflazione attualmente è troppo bassa, non troppo alta.
Evitare eccessi di potere d’acquisto che aumentino l’import al punto di sbilanciare i saldi commerciali esteri, portandoli in significativo deficit: ma da diversi anni l’Italia genera circa 50 miliardi di surplus commerciale estero.
Tutto ciò premesso, che fondatezza ha l’affermazione secondo la quale “l’Italia vive prendendo soldi a prestito” ?
Il quadro più completo della situazione patrimoniale dell’Italia nei confronti dell’estero è dato dalla “Net International Investment Position” (NIIP).
La NIIP è il saldo algebrico tra lo stock di investimenti effettuati da residenti italiani (privati, aziende e settore pubblico), da un lato; e gli investimenti effettuati in Italia da non residenti, dall’altro.
I dati Banca d’Italia al 31.12.2017 ci dicono che la NIIP italiana è negativa per 115 miliardi di euro, corrispondenti al 6,7% del PIL. E’ vero quindi che è negativa, ma per importi modesti (rispetto alle dimensioni della nostra economia).
Il saldo, inoltre, è in costante miglioramento (aveva raggiunto un picco del -27% circa a inizio 2014) grazie ai surplus commerciali che il nostro paese continua a generare (anche se un po’ in rallentamento nel 2018, principalmente a causa dell’indebolimento del dollaro e dalla risalita del prezzo del petrolio).
Esaminando poi la composizione della NIIP, si rileva quanto segue:

 

Investimenti diretti azionari
Attivi
441
Passivi
-304
137
Investimenti diretti in strumenti di debito
Attivi
119
Passivi
-157
-38
Investimenti di portafoglio in azioni, fondi comuni e strumenti
Attivi
1.427
di debito (escluso debito pubblico detenuto da non residenti)
Passivi
-545
882
Altri investimenti
Attivi
579
Passivi
-601
-22
Riserve ufficiali della Banca d’Italia
126
Saldi Target2
-450
Debito pubblico detenuto da non residenti
-750
NET INTERNATIONAL INVESTMENT POSITION 31.12.2017
-115
Particolarmente significativi sono gli investimenti netti di portafoglio in azioni, fondi comuni e strumenti di debito, che in buona sostanza corrispondono all’investimento netto all’estero dei risparmiatori italiani.
Il saldo è positivo per 882 miliardi di euro, che è un ammontare superiore al debito pubblico italiano detenuto da non residenti (750 miliardi, pari a circa un terzo del totale in circolazione).
In pratica, il risparmio netto dei residenti italiani è in grado di coprire tutto il debito pubblico.
L’Italia non è dipendente dal risparmio estero.
Semplicemente, in contesto di libera circolazione dei capitali, alcuni investitori esteri hanno deciso di allocare una parte delle loro posizioni sul debito pubblico italiano, e analogamente i risparmiatori italiani (direttamente o, più spesso, tramite strumenti di risparmio gestito) hanno parzialmente diversificato i loro attivi rivolgendosi verso titoli di emittenti non italiani.
Va anche notato che nella stragrande maggioranza dei casi, è infondata la preoccupazione dei risparmiatori italiani di subire danni patrimoniali in caso di rottura dell’euro, con conseguente trasformazione in nuove lire dei titoli da essi posseduti.
In primo luogo, un risparmiatore italiano, che fa i conti e spende soldi nella moneta in uso nel suo paese, non subisce danni a meno che la svalutazione si traduca in inflazione. In un contesto di domanda pesantemente depressa, il nesso tra svalutazione e inflazione (già di per sé labile, nel senso che l’impatto inflattivo della svalutazione è di regola parecchio inferiore all’entità di quest’ultima) è prossimo a zero.
Ne è prova (un esempio tra i tanti) l’impatto nullo prodotto dalla rivalutazione del dollaro, che è passato da 1,39 contro euro a inizio 2014, fino a 1,04 a fine 2016, senza alcun apprezzabile variazione dell’inflazione.
In secondo luogo, il risparmiatore italiano ormai da parecchi anni è abituato a diversificare i propri investimenti finanziari (magari non agendo direttamente, ma, come già accennato, in quanto utilizza strumenti di risparmio gestito, che diversificano per emittente, per nazionalità, per valuta ecc.).
In caso di svalutazione, la perdita di potere d’acquisto della parte di portafoglio allocata su titoli italiani sarebbe modestissima se non nulla, mentre si avrebbe un significativo guadagnosulla componente estera.
Liberandosi dai vincoli dell’eurosistema, l’Italia non ha proprio nulla da temere riguardo alla gestione dei fabbisogni finanziari futuri del paese in generale, e della pubblica amministrazione in particolare.
Che poi la rottura dell’euro sia un processo complicato sul piano operativo e politico è un altro discorso: e da queste considerazioni nasce il progetto Moneta Fiscale / CCF.
Ma basta, per favore, con le farneticazioni secondo cui l’Italia dipende dalla carità del prossimo…

Lascia un commento