IDEOLOGIE: SPECCHIO PER LE ALLODOLE

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La politica “intellettual-pop” che troviamo nei media e nel web distorce e divide dimenticando i diritti umani.

 

Di Massimo Franceschini

 

Pubblicato su Sfero, Ovidio Network

 

È un po’ che non scrivo sulla politica, sull’incapacità politica e sull’antipolitica, argomenti sui quali ho scritto e detto molto condensandoli in una “materia” che ho chiamato “cosa impedisce una politica alternativa”, qui e qui.

Come sapete il mio tema politico è quello dei diritti umani, sui quali sto per pubblicare un altro libro.

Vorrei ora tornare per un attimo sull’argomento politica, allo scopo di sottolineare fra le tante problematiche alla base dell’incapacità, quella che da subito, anche se probabilmente ultimo, avevo indicato come principale: quella ideologica.

Iniziamo intanto con l’osservare una questione normalmente non considerata, cioè il fatto che l’evoluzione politica dell’uomo avrebbe in effetti superato da un bel pezzo le ideologie, dimostrando una notevole capacità di sintesi, cosa che va ben oltre il compromesso: se prendiamo ad esempio la Costituzione italiana o ancor meglio la Dichiarazione universale dei diritti umani, possiamo vedere come nel secolo scorso si sia già operata una mirabile sintesi fra istanze più “liberali” e fra altre più “socialiste”.

Al di là della falsa propaganda a scopo di dominio, una consapevolezza dalla quale dobbiamo sempre vagliare la natura e l’espressione di qualsiasi sistema, se l’Occidente ha avuto buon gioco nel rivendersi come “la parte migliore del mondo” lo ha potuto fare grazie a questa sintesi.

La parziale, sghemba, maldestra e insufficiente messa in atto di tale sintesi, per qualche decina di anni successivi alla Seconda Guerra Mondiale, ha comunque portato frutti abbastanza sufficienti per essere rimpianti oggi.

Frutti via via sempre più traditi e demoliti per darci il regime odierno: una plutocrazia finanziaria che ha posseduto gli stati di diritto e prende le macro decisioni importanti, definite in agende, in luoghi sconosciuti e “profondi” saltando la determinazione dei parlamenti, sempre più ridotti ad essere meri esecutori di agende.

In questo modo la democrazia resta solo una “cosa” formale, perdendo quelle sostanze di consapevolezza e reale partecipazione necessarie a far sì che il cittadino e la sua comunità possano finalmente essere gli unici detentori delle reali sovranità, in grado di decidere la politica con cui amministrarsi.

Tale regime governa il discorso pubblico con una propaganda diffusa e penetrante attraverso i media, condita da consistenti prassi di gatekeeping e divide et impera, aiutati in queste pratiche dalle stesse società civili sempre più incapaci di raziocinio politico e di pensare politicamente.

Proprio su un aspetto di questa complicità indiretta vorrei mettere l’attenzione, discutendo una questione che riguarda principalmente la narrazione politica ideologica, soprattutto a sinistra, principalmente nella cosiddetta “area del dissenso”.

In sociologia e filosofia politica è normale e doveroso cercare di dare un nome ai diversi impianti teorici, socio-economici, politici e istituzionali, differenziandoli per comprenderli meglio, prassi che fa parte della scienza di qualsiasi materia: differenziare il capitalismo dall’economia di stato, il socialismo dal comunismo ed entrambi da liberismo o neoliberismo può avere un senso da un punto di vista analitico e culturale, come ha certamente senso spiegare la differenza fra un’economia reale produttiva di beni e servizi, da una finanziaria e predatoria che “vampirizza”, conquista e di fatto distrugge quella reale.

Tali analisi, dovrebbero comunque ben illustrare la distanza fra i valori e le intenzioni insite in quelle definizioni e la forma “reale” con cui queste si sono espresse nella storia, altrimenti non si capirebbe che all’inizio il liberismo si considerava un tentativo di riaffermare la libertà di mercato dai monopoli e da un eccessivo interventismo dello Stato, mentre in realtà è andato a favore proprio dei monopolisti e della finanza diventando neoliberismo, demolendo in sostanza proprio il mercato e la libera concorrenza per far occupare lo Stato dalle corporazioni monopoliste.

Stessa cosa per il socialismo, che è certo servito ad alleviare la disoccupazione con l’assistenzialismo, senza mai riuscire ad ottenere la piena occupazione; oppure un comunismo che fosse in grado di contemplare le libertà civili e politiche, capace solo di spostare la proprietà e le decisioni dai capitalisti ai burocrati di Stato con la parallela demolizione di molti dei diritti umani che l’Occidente comunque tentava di mantenere, anche se con sempre meno intenzione e capacità.

Tutto questo per dire che la realtà difficilmente è bianca o nera, anche se troppo spesso vediamo nelle analisi socio-politiche l’invalsa abitudine di innestare continuamente le categorie ideologiche e sistemiche per associare a queste qualsiasi tipo di fenomeno e comportamento.

Questa prassi opera una continua e inaccettabile deviazione, generalizzando fenomeni diversi e inserendoli in presunte categorie, che può dare anche un “sapore” di comprensione o ri-comprensione soprattutto nell’odierna cultura pervasa di scientismo, ma che rappresenta solo una consuetudine etichettante, di fatto impropria, ad uso e consumo ideologico.

Molti gli esempi che si potrebbero fare, ma uno su tutti, molto attuale, è la tendenza ad analizzare comportamenti sociali e personali per addebitarli al “capitalismo” o al “neoliberismo”: ad esempio, pensare di potersi definire di un “genere” diverso dal sesso di appartenenza perché convinti da cultura, media e psichiatra di essere “affetti” da “disforia di genere”, può diventare nelle mani degli analisti più sinistrorsi ed economicisti un fenomeno assimilabile al consumismo capitalistico che avrebbe favorito la deriva dei costumi “neoliberale”.

Al di là che tali generalizzazioni lasciano il tempo che trovano da un punto di vista “scientifico” – nello specifico tenderei più corretto addebitare al materialismo imperante e alla psichiatrizzazione dell’esistenza la vera sorgente dei “problemi di genere” –, vediamo che tali abitudini argomentative servono solo a confermare l’appartenenza ideologica, producendo un aumento dei vari divide et impera: quello contro la politica da parte dei “diversi”, quello dei conservatori che si vedono appioppate responsabilità che non riconoscono perché tendenzialmente contrari alla fluidità di genere, quello dei semplici liberali non “liberal”, che in questo modo potrebbero ancora arroccarsi nella loro “definizione” e proseguire la reticenza a considerare le ragioni di un sempre più necessario bilanciamento del liberalismo con dosi di “socialismo”, almeno per quanto riguarda i diritti sociali e in ottemperanza ai diritti umani.

Insomma, tutto questo discorso per dire che occorrerebbe rivedere tutta l’impostazione della narrazione e dell’analisi socio-politica, per farla aderire maggiormente alla natura e alle prassi del potere moderno, assai diverse da quelle industrial-ottocentesche.

Oggi il potere oligarchico e profondo è teso a governare globalmente, dando l’impressione di una forte conflittualità geopolitica e confondendo ogni concetto di diritto, libertà e responsabilità, che sarebbe tipico delle istituzioni liberali se veramente informate dai diritti umani.

Il sistema socio-politico dei nostri giorni, coadiuvato dallo “spettacolo integrato”, sta operando con sopraffine modalità propagandistiche e di controllo permesse dalla tecnologia, per una completa e progressiva demolizione della dignità, della libertà e della responsabilità delle persone, proprio i valori sostanziali dei diritti umani.

Di fatto, con tali carenze culturali, strategiche ed espressive, molta “militanza politica” si mostra così ancora classista ed economicista, totalmente divisiva e per questo velleitaria, del tutto cieca e impreparata di fronte a un potere sempre più onnicomprensivo e in grado da una parte di portare lo sfruttamento dell’uomo ad un livello mai così generalizzato, dato l’impoverimento economico, civile ed istituzionale di tutti gli strati sociali che non siano le oligarchie, dall’altro di immettere nella cultura e nello spettacolo contenuti tesi non solo a distrarre dai problemi socio-economici, ma soprattutto a riscrivere l’uomo stesso e il suo paradigma intellettuale e mentale a fini di mero controllo del pensiero.

La distopia che da sempre temiamo, ma che stiamo da troppo tempo favorendo, come descrivo qui, è resa possibile anche da una narrazione politica apparentemente alternativa, a ben vedere compresa in quella dicotomia che regge il “sistema” dei nostri tempi.

È sempre più vicino il momento in cui anche una vera e nuova volontà politica sarà comunque impossibilitata a far qualcosa, forse lo abbiamo già superato, aiutati da tutti quelli che ci stanno continuamente portando fuori strada.

 

26 agosto 2024
fonte immagine: istruzione a Microsoft Bing

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