di David Glasner
15.08.2019
Il 15 agosto del 1971 potrebbe non essere un giorno che vivrà nell’infamia, ma non è certo un giorno da festeggiare.
Fu il giorno in cui uno dei più cinici presidenti della storia americana commise uno dei suoi atti più cinici: violare solenni promesse fatte più volte in precedenza, sia prima che dopo la sua elezione a Presidente. Richard Nixon dichiarò il congelamento per novanta giorni di salari e prezzi.
Nixon dichiarò anche la chiusura della gold window (finestra dell’oro) presso il Tesoro degli Stati Uniti, spezzando l’ultimo briciolo di legame tra oro e dollaro. E’ interessante notare come [in occasione di questa ricorrenza]
L’Economist, Forbes e il Wall Street Journal rimarchino l’anniversario con commenti critici verso l’azione di Nixon, concentrandosi mestamente solo sulle funeste conseguenze della rottura tra oro e dollaro, menzionando a malapena i novanta giorni di congelamento che divennero il preludio al controllo completo sui salari e sui prezzi imposto alla scadenza del quel congelamento.
Dei due eventi, il congelamento dei salari e dei prezzi e la chiusura del gold window, il secondo portò di gran lunga le conseguenze più avverse. La chiusura del gold window ratificava semplicemente la fine di un Gold Standard che da tempo aveva smesso di funzionare, come aveva fatto per gran parte del XIX e all’inizio del XX secolo.
Per contro, nessuna necessità economica o almeno nessuna argomentazione economica coerente stavano alla base della decisione di imporre il congelamento di prezzi e salari. Nonostante le razionalizzazioni ex-post offerte dai consulenti economici di Nixon, incluse figure stimabili come Herbert Stein, Paul McKracken e George Schultz, che sicuramente non erano degli ingenui, furono in qualche modo persuasi a seguire una politica di intervento massiccio e scioccante nelle transazioni del mercato privato.
L’argomentazione per chiudere il gold window era che l’ancoraggio ufficiale del dollaro all’oro al prezzo di 35 dollari l’oncia era probabilmente inferiore del 10-20% a qualsiasi stima realistica del vero valore di mercato dell’oro dell’epoca, rendendo impossibile ristabilire la vecchia parità come prezzo economicamente significativo, senza imporre una deflazione intollerabile sull’economia mondiale.
Una risposta alternativa poteva essere quella di svalutare ufficialmente il dollaro in rapporto al reale valore di mercato dell’oro che era di 40-42 dollari all’oncia. Ma fare questo avrebbe soltanto dimostrato che il prezzo dell’oro era uno strumento politico soggetto ai capricci delle autorità monetarie statunitensi, minando la fiducia nella sostenibilità del Gold Standard.
In quella occasione fu fatto il tentativo di tenere in piedi il sistema di Bretton Woods (con l’accordo di Smithsonian di dicembre 1971) sulla base di 38 dollari l’oncia, ma fu subito evidente che un nuovo sistema monetario basato su qualsiasi forma di convertibilità dell’oro non poteva più sopravvivere.
In che modo i 35 dollari l’oncia sono diventati insostenibili appena 25 anni dopo la creazione del sistema di Bretton Woods?
Il problema emerso nel giro di pochi anni dalla sua nascita era che i principali partner commerciali degli Stati Uniti mantenevano sistematicamente sottovalutate le proprie valute in rapporto al dollaro, promuovendo le esportazioni ed allo stesso tempo sterilizzare il conseguente afflusso di dollari, non consentendo un’inflazione interna sufficiente né un apprezzamento sufficiente del tasso di cambio per eliminare la sopravvalutazione delle loro valute rispetto al dollaro.
Sterilizzare è un termine fuorviante, poiché implica che i flussi continui di oro o di dollari avvengano in modo casuale; i flussi persistenti si verificano solo perché sono indotti da un persistente aumento della domanda di riserve o dall’insufficiente creazione di liquidità.
Dopo l’aumento dell’inflazione durante la Guerra di Corea, la stretta politica monetaria della FED ed un tasso di cambio costantemente sopravvalutato hanno mantenuto bassa l’inflazione negli Stati Uniti, al costo di una crescita lenta e di tre recessioni tra il 1953 e il 1960.
Fu solo con l’avvento dell’amministrazione Kennedy con l’impegno di rimettere in moto il paese che la FED fu messa sotto pressione affinchè allentasse la politica monetaria, dando inizio al lungo boom economico degli anni ’60, circa tre anni prima che i tagli fiscali di Kennedy entrassero in vigore (postumi) nel 1964.
L’espansione monetaria da parte della FED ridusse la sopravvalutazione del dollaro rispetto alle altre valute, ma la crescente esportazione di dollari fece dipendere l’ancoragggio ai 35 dollari l’oncia sempre di più dalla volontà dei governi stranieri di detenere dollari.
Nel mentre il presidente francese Charles De Gaulle, dopo aver superato l’opposizione interna al suo dominio, si sentì abbastanza sicuro di riaffermare gli interessi francesi rispetto agli Stati Uniti, riprendendo la tradizione politica francese di accumulare riserve materiali d’oro, piuttosto che semplici crediti [tali erano i dollari] su oro fisicamente detenuto altrove.
Dal 1967 il London Gold Pool, un cartello di banche centrali che agiva per controllare il prezzo dell’oro sul mercato di Londra, stava crollando, mentre la Francia si ritirava dal cartello, chiedendo che l’oro fosse spedito a Parigi da New York.
Nel 1968, incapaci di contenere ulteriormente il prezzo di mercato dell’oro, gli Stati Uniti e le altre banche centrali lasciarono che il prezzo salisse oltre la soglia ufficiale, ma concordarono di condurre tra di loro transazioni ufficiali al prezzo ufficiale di 35 dollari l’oncia. Poiché i prezzi di mercato dell’oro, trainati dall’espansione monetaria degli Stati Uniti, aumentavano costantemente, gli incentivi per le banche centrali a richiedere oro dagli Stati Uniti al prezzo ufficiale divennero troppo forti da poter essere contenuti, così che il sistema si trovò sull’orlo del collasso, quando Nixon riconobbe l’inevitabile e chiuse la gold window piuttosto che consentire l’esaurimento delle riserve auree statunitensi.
Le affermazioni secondo cui il sistema di Bretton Woods avrebbe potuto essere salvato in qualche modo, ignorano la realtà economica che nel 1971 il sistema di Bretton Woods era stato infranto oltre ogni possibilità di recupero, o almeno oltre qualsiasi recupero che potesse essere effettuato a un costo tollerabile.
Ma Nixon aveva chiaramente un’altra motivazione per il suo annuncio del 15 agosto 1971, meno di 15 mesi prima delle successive elezioni presidenziali. Si trattava del colpo di apertura della sua campagna per la rielezione. Ricordando fin troppo bene di aver perso le elezioni del 1960 con John Kennedy perché la FED non aveva fornito sufficienti stimoli monetari per fermare la recessione del 1960-61. Nixon aveva nominato il suo consulente economico di lunga data, Arthur Burns, in sostituzione di William McChesney Martin come presidente della FED nel 1970.
Un lieve inasprimento della politica monetaria nel 1969, mentre l’inflazione saliva a un tasso annuo superiore al 5%, aveva prodotto una recessione fra la fine del 1969 e l’inizio del 1970, senza dare troppo sollievo dall’inflazione.
Burns allentò le maglie quanto bastava per consentire una tenue ripresa, ma l’economia sembrava soffrire il peggio di entrambe le cose: l’inflazione era ancora vicina al 4% e la disoccupazione a quello che allora pareva un livello inaccetabilmente alto di quasi il 6%.
Per ulteriori informazioni su Burns e il suo deplorevole ruolo in tutto questo si legga questo articolo.
Con delle elezioni sempre più vicine all’orizzonte, Nixon nell’estate del 1971 fu consumato dall’imperativo politico di accelerare la ripresa. Nel frattempo il Congresso democratico, supponendo che Nixon intendesse davvero mantenere le sue promesse di non imporre controlli sui salari e sui prezzi per fermare l’inflazione, iniziò a chiedere a gran voce che ci fossero i controlli come mezzo per frenare l’inflazione, senza subire la pena della recessione, perfino autorizzando il Presidente ad imporre i controlli, un azzardo che mai pensarono avrebbe accettato.
Arthur Burns stesso, forse inconsapevolmente (sono stato troppo gentile), offrì il suo sostegno a tale mossa esprimendo la sua frustrazione per un’inflazione che persisteva anche di fronte alla recessione ed all’alto tasso di disoccupazione, suggerendo che le vecchie regole dell’economia non funzionavano più come prima.
Offrì persino un vago supporto a quella che allora veniva definita la politica dei redditi, generalmente intesa come tentativo informale di ridurre l’inflazione, annunciando l’obiettivo di un aumento dei salari corrispondente agli aumenti di produttività, eliminando in tal modo la necessità delle imprese di aumentare i prezzi per compensare l’aumento dei costi del lavoro.
Ciò che tali proposte di solito ignoravano era la necessità di una politica monetaria che limitasse la crescita della spesa totale, in modo sufficiente da limitare la crescita dei salari all’obiettivo designato.
[Sulle politiche dei redditi e su come potrebbero funzionare se fossere comprese correttamente potete leggere questo articolo]
Essendo stato convinto che non vi era alternativa alla chiusura del Gold Window, che dal punto di vista di Nixon e della maggior parte dei politici convenzionali era un’ammissione dolorosamente spiacevole della debolezza degli Stati Uniti di fronte ai suoi nemici (tutto questo avveniva al culmine della Guerra del Vietnam e delle proteste contro i militari), Nixon decise che poteva combinare quella decisione, addolcendola con un attacco aggressivo agli speculatori sulle valute internazionali, con una tassa protezionistica del 10% sulle importazioni negli Stati Uniti e con la misura ancora più radicale di un congelamento dei prezzi e dei salari, seguito da un programma più duraturo di controllo dell’aumento dei prezzi, strappando ai Democratici sotto il loro naso la loro proposta di una economica più potente e popolare.
Nel frattempo, neutralizzata la minaccia dell’inflazione, Arthur Burns poteva essere messo sotto pressione senza pietà per aumentare il tasso di espansione monetaria, garantendo che Nixon si ripresentasse alle elezioni nel bel mezzo di un boom economico.
Ma proprio mentre il successo elettorale di Nixon cadeva sotto i colpi dello scandalo del Watergate, il suo successo economico andò a pezzi, in quanto una politica monetaria inflazionistica unita a controlli su salari e sui prezzi produceva crescenti dislocazioni, carenze e inefficienze, andando gradualmente ad indebolire la forza di una ripresa economica alimentata dall’eccesso di domanda, piuttosto che dall’aumento della produttività.
Poiché il controllo dei prezzi su vasta scala, al contrario di quello mirato, tende ad essere più popolare prima di essere imposto piuttosto che dopo (in quanto molte aspettative favorevoli relative a questo tipo di regolamentazioni vengono disattese), la grande maggioranza dei controlli terminò alla scadenza della concessione originale dell’autorità congressuale nell’aprile del 1974.
Già dall’estate del 1973 la carenza di benzina e di altri prodotti petroliferi stava diventando cosa comune e le carenze di olio combustibile e gas naturale erano state ampiamente previste per l’inverno 1973-74. Nell’ottobre del 1973, a seguito della guerra dello Yom Kippur e dell’imposizione di un embargo petrolifero arabo contro gli Stati Uniti e altri paesi occidentali simpatizzanti di Israele, le carenze si trasformarono nella prima “Crisi Energetica”. Un Congresso Democratico e l’amministrazione Nixon entrarono in azione, promulgando una legislazione speciale che consentisse di mantenere i controlli sui prodotti petroliferi di tutti i tipi insieme ad un’autorità d’emergenza che autorizzasse il governo a destinare i prodotti di cui vi era carenza.
Mi stupisce ancora che quasi tutte le dislocazioni avvenute dopo l’embargo e la conseguente crisi energetica furono attribuite ad un consumo eccessivo di petrolio e di prodotti petroliferi in generale o all’eccessiva dipendenza dalle importazioni, come se si fosse verificata una qualsiasi carenza o dislocazione in assenza di controlli sui prezzi.
E quasi nessuno si rende conto che i controlli sui prezzi tendono a spingere i prezzi di una qualsivoglia porzione dell’offerta, in modo che alla fine la perdita di controllo sui prezzi è maggiore di quanto sarebbe accaduto in assenza di controlli.
Circa dieci anni dopo la prima crisi energetica, ho pubblicato un libro nel quale ho cercato di spiegare come tutte le dislocazioni scaturite dall’embargo arabo sul petrolio e la crisi del 1978-79 a seguito della rivoluzione iraniana fossero attribuibili ai controlli sui prezzi inizialmente imposti da Richard Nixon il 15 Agosto del 1971. Ma i collegamenti tra la crisi energetica con tutte le sue ramificazioni e i controlli sui prezzi di Nixon rimangono ad oggi purtroppo ampiamente trascurati ed ignorati.
Se c’è motivo di riflettere su quello che è accaduto esattamente quaranta anni fa, è sicuramente quella la ragione, non di certo perché Nixon decise di staccare la spina ad un Gold Standard che già non funzionava da anni.
Tratto da:
https://uneasymoney.com/2019/08/15/august-15-1971-unhappy-anniversary/
traduzione a cura di Renato Nettuno
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