Riportiamo questo interessante articolo dal canale sovranista (canalesovranista.altervista.org) sull’origine storica del trattato di Maastricht.
Lo abbiamo detto in tutte le salse che con il trattato di Maastricht ha segnato l’inizio del declino italiano, per poi concretizzarsi con la piena introduzione dell’euro nel 2002. Coloro che ci hanno portato in questa gabbia era tutti perfettamente consapevoli di quello che stavano facendo.
Come non ricordare le dichiarazioni di Giuliano Amato sulla “faustiana pretesa di una moneta senza stato” in una trasmissione RAI del 2012, oppure Massimo D’Alema che già nel 92 dagli scranni del parlamento definiva Maastricht “distorzione in senso neoliberista del processo di unità europea“.
Oggi invece parleremo di chi ha negoziato e firmato il trattato di Maasticht, in qualità di ministro del Tesoro, ovvero di Guido Carli (nella foto a destra).
Ex governatore della Banca d’Italia, ex presidente di confindustria, prima di morire si fece intervistare dal giornalista Paolo Peluffo che trascrisse le testimonianze di Carli in “Cinquant’anni di vita italiana“.
Questo libro del 1993 è un documento storico straordinario, ci sarebbe davvero tanto da dire, per il momento ecco la trascrizione di due paragrafi inerenti il trattato di Maastricht, seguiti da un breve commento.
Buona lettura.
UNA NUOVA CLASSE DIRIGENTE PER IL DOPO MAASTRICHT (pag 7-9)
Il trattato di Maastricht, le privatizzazioni rappresentano una sorta di imbuto nel quale si ritrovano tutti i fili di questi cinquant’anni italiani. Anche i contenuti del trattato di Maastricht compongono in un disegno razionale tutto ciò che il “vincolo esterno” non è riuscito a far allignare nel ceppo della società italiana: l’idea di uno “Stato minimo”, un conflitto sociale che si snoda nel rispetto della stabilità dei prezzi, esaltando la nuda creatività del lavoro, la capacità di innovare, la flessibilità del lavoro. Il tentativo attuato nel triennio 1989-1992 non ha avuto successo. La mano pubblica non si è ritratta dai territori che impropriamente aveva occupato negli anni precedenti. Tuttavia, un processo di mutamento profondo della cultura economica, della coscienza civile è stato avviato. Altri lo porteranno a termine.
La vastità dell’innovazione giuridica contenuta nel trattato di Maastricht comporta un cambiamento di natura costituzionale. Restituisce all’ordinamento giuridico la funzione di contrastare la distruzione del potere d’acquisto della moneta. Sottrae allo Stato gran parte dei poteri di sovranità monetaria. Li trasferisce a livello sovrannazionale e li restituisce così ai cittadini. Costringe tutti gli operatori che agiscono sul mercato a ripudiare i comportamenti inflazionistici che hanno caratterizzato la società italiana per almeno vent’anni. Si tratta di una costruzione imperniata su quelle nozioni che non avevano trovato albergo nella nostra Costituzione, nell’ordinamento dei codici: tutela della concorrenza, divieto di acquisire posizioni dominanti, obbligo di rispettare gli azionisti minori, pubblicità delle operazioni finanziarie, difesa contro l’uso distorto di informazioni riservate.
Il trattato di Maastricht è stato ratificato dal nostro Paese, prima di altri Paesi della Comunità. Eppure, ancora una volta, dobbiamo ammettere che un cambiamento strutturale avviene attraverso l’imposizione di un “vincolo esterno”. Ancora una volta, come già nel caso del trattato di Roma, come nel caso del sistema monetario europeo, un gruppo di italiani ha partecipato attivamente, lasciando tracce importanti del proprio contributo, all’elaborazione di quei trattati che hanno poi rappresentato “vincoli esterni” per il nostro Paese. Ancora una volta, si è dovuto aggirare il Parlamento sovrano della Repubblica, costruendo altrove ciò che non si riusciva a costruire in patria.
La classe dirigente che oggi sta passando la mano ha molte colpe, ma ha dei meriti: l’aver saputo mantenere l’ancoraggio del Paese all’economia di mercato contro le forze preponderanti che lo volevano distaccare da essa; l’aver insomma mantenuto nel proprio grembo le due anime in lotta fra loro. Oggi è venuto il momento della ricongiunzione. Quando sarà applicato, il trattato sull’Unione Europea renderà irreversibile ciò che fino ad oggi era stato una fragile conquista esposta ad ogni sorta di reazione. Ma proprio nel momento in cui gran parte della sovranità nazionale viene devoluta all’Unione Europea, è tanto più necessaria una nuova classe dirigente che eserciti la sovranità del Parlamento secondo modalità non distorte. L’auspicio con il quale inizio questa carrellata storica è che il nuovo “vincolo esterno” rappresentato dall’Unione economica e monetaria sia anche l’ultimo, e che gli uomini che si troveranno a ricostruire il rapporto tra Stato e cittadini nella nostra repubblica sappiano far scaturire dall’interno dell’ordinamento nazionale quei principi che fino ad oggi abbiamo derivato dall’esterno.
Il concetto del vincolo esterno è il tema che accompagna tutto il libro e, secondo Carli, avrebbe salvato tre volte (Bretton Wood, SME, Maastricht) ma da cosa?
Dalle resistenze che i cittadini facevano dall’accettazione dei principi di un’economia di mercato, che Carli definiva “istinti animali“. In altre parole, il vincolo esterno ci ha “salvato” da noi stessi!
Bellissimo poi il passaggio dove ammette l’antidemocraticità del progetto quando parla di “aggirare il parlamento” per approvare quello che la nostra Costituzione, in particolare nella parte economica, non prevedeva.
Ammette persino le cessioni di sovranità nazionale a livello sovrannazionale, dove per definizione i cittadini non contano nulla. E tutto questo che reazioni ha suscitato in Italia? Andiamo avanti
LE TANGENTI E LA DISINFLAZIONE (pag 435-437)
(…) È stupefacente contrastare l’indifferenza con la quale in Italia è stata accolta la ratifica del trattato di Maastricht, rispetto al clamore che e al fervore interpretativo che si è potuto registrare in Francia, nel Regno Unito, in Germania, in Danimarca, nella stessa Spagna. La cosa è tanto più difficile da comprendere se si considera che per l’Italia, più che per tutti gli altri Paesi membri della comunità, il trattato rappresenta un mutamento sostanziale, profondo, direi di carattere “costituzionale”.
L’Unione Europea implica la concezione dello “Stato minimo”, l’abbandono dell’economia mista, l’abbandono della programmazione economica, la ridefinizione delle modalità di composizione della spesa, una redistribuzione delle responsabilità che restringa il potere delle assemblee parlamentari ed aumenti quelle dei governi, l’autonomia impositiva per gli enti locali, il ripudio del principio della gratuità diffusa (con la conseguente riforma della sanità e del sistema previdenziale), l’abolizione della scala mobile (con la sconfessione del principio del recupero automatico dell’inflazione reale passata e l’aggancio della dinamica retributiva all’inflazione programmata), la drastica riduzione delle aree di privilegio, la mobilità dei fattori produttivi, la riduzione della presenza dello Stato nel sistema del credito e nell’industria, l’abbandono di comportamenti inflazionistici non soltanto da parte dei lavoratori, ma anche da parte dei produttori di servizi, l’abolizione delle normative che stabiliscono prezzi amministrati e tariffe. In una parola: un nuovo patto tra Stato e cittadini, a favore di questi ultimi. Ebbene un cambiamento giuridico di questa portata, con queste conseguenze, è passato pressoché sotto silenzio, senza conquistare le prime pagine dei giornali.
Il trattato sull’Unione Europea ridefinisce i confini dei diritti e dei doveri degli operatori economici e vincola tutti a comportamenti non inflazionistici. Ciascuna categoria, in Italia, era abituata a scaricare l’onere dell’aggiustamento su un’altra categoria. La composizione finale di questa equazione impossibile è sempre avvenuta o a carico dello Stato, ed è dunque riemersa sotto forma di indebitamento, oppure sotto forma di inflazione. La composizione delle istanze, particolari avveniva al di fuori delle aule parlamentari. La politica cessava di scegliere. Sperava nella magia di una rincorsa tra prezzi e salari che, a turno, accontentasse tutti. Oggi si può tornare a scegliere.
Il trattato sull’Unione Europea impone dunque una progressiva bonifica dell’ordinamento giuridico italiano. La classe politica italiana non si è resa conto che, approvando il trattato, si è posta nella condizione di aver già accettato un cambiamento di una vastità tale che difficilmente essa vi sarebbe passata indenne.
In fondo, Tangentopoli non è che un’imprevista opera di disinflazione di un’economia drogata, un completamento inconsapevole del trattato di Maastricht. (…)
Come vedete, il cambio di paradigma economico che c’è stato con il trattato di Maastricht è una verità incontestabile, con buona pace degli euroinomani.
A tutti quelli che “il problema è la produttività”, a quelli che “abbiamo perso il treno della rivoluzione digitale”, a quelli che “anche altri paesi hanno l’euro”, eccovi la risposta: per inseguire il fogno europeo, l’Italia ha abbandonato un modello economico vincente.
Articolo Originale
Lascia un commento