Krugman – Il “disturbo da ricchezza eccessiva”

Proponiamo questo interessante articolo del New York Times tradotto e riportato nel sito di Voci dall’Estero. Buona Lettura!

Paul Krugman, premio Nobel per l’Economia nel 2008, mostra sul New York Times quanto e attraverso quali sistemi l’agenda politica degli straricchi – volta, molto banalmente, a tutelare i loro interessi di classe, per esempio a ottenere tasse più basse tagliando sui servizi sociali – venga imposta all’opinione pubblica e spacciata per l’unica strategia “responsabile”. I desideri dei più ricchi vengono trasformati in “quello che è giusto fare”, anche quando in realtà danneggiano non solo le persone meno abbienti, ma anche l’economia di un Paese nel suo insieme. Ecco perché ridurre l’eccesso di ricchezza è anche un modo per ottenere un sistema politico più sano. 

Di Paul Krugman, 22 giugno 2019

Tra un paio di giorni parteciperò a una conferenza all’Istituto di politica economica sul “disturbo da ricchezza eccessiva” – ovvero i problemi e i pericoli che nascono dall’estrema concentrazione di reddito e ricchezza ai vertici della società. Mi è stato chiesto di tenere un breve discorso introduttivo, concentrandomi sulle distorsioni create da un’elevata disuguaglianza nella politica e nella strategia dei governi, e ho cercato di mettere ordine nei miei pensieri. Quindi ho pensato che avrei potuto mettere nero su bianco questi pensieri, per dare loro una diffusione più ampia.

Mentre il dibattito pubblico si è concentrato sull’ “uno  per cento”, quello che è veramente in discussione qui è il ruolo dello 0,1 per cento, o forse dello 0,01 percento – il vero ricco, non “l”impiegato di Wall Street da 400.000 dollari all’anno” memorabilmente ridicolizzato nel film omonimo. Si tratta di un gruppo molto piccolo di persone, ma che esercita un’enorme influenza sulla politica.

Come si esercita questa influenza? La gente parla spesso dei contributi alle campagne elettorali, ma questi sono solo uno dei canali esistenti. In effetti, identificherei almeno quattro modi in cui le risorse finanziarie dello 0,1% distorcono le priorità della politica.

1. Corruzione pura e semplice. Amiamo immaginare che la semplice corruzione dei politici non sia un fattore importante in America, ma è quasi sicuramente un fenomeno molto più esteso di quanto ci piace pensare.

2. Corruzione indiretta. Quello che intendo qui sono i vari modi, al di fuori della corruzione diretta di politici, funzionari governativi e persone con influenza politica di qualsiasi tipo, per arricchirsi promuovendo politiche che servono gli interessi o i pregiudizi dei ricchi. Questo include le “porte girevoli” tra ruoli nell’amministrazione pubblica e nel settore privato, borse di studio, gettoni nel giro delle conferenze e così via.

3. Contributi alle campagne elettorali. Sì, anche questi sono importanti.

4. Definizione dell’agenda politica: attraverso una varietà di canali – proprietà dei media, gestione di centri studi, e la semplice tendenza generale a ritenere che essere ricchi significhi anche essere saggi – lo 0,1 per cento ha una straordinaria capacità di impostare l’agenda della discussione politica, in modi che possono essere in totale contrasto sia con una valutazione delle priorità ragionevole sia con l’opinione pubblica in generale.

Tra questi, voglio focalizzarmi sul quarto punto, non perché sia ​​necessariamente il più importante – come ho detto, sospetto che la corruzione pura e semplice sia un fenomeno più esteso di quanto la maggior parte di noi possa immaginare – ma perché è qualcosa che penso di conoscere. In particolare, voglio concentrarmi su un particolare esempio che per me e altri è stato una sorta di momento estremo, una dimostrazione di come la ricchezza smodata ha davvero degradato la capacità del nostro sistema politico di affrontare i problemi reali.

L’esempio che ho in mente è stato lo straordinario cambiamento nella filosofia corrente e nelle priorità politiche del 2010-2011, che le ha distolte dal porre la priorità sulla riduzione delle enormi sofferenze ancora in atto all’indomani della crisi finanziaria del 2008, e spinte verso azioni volte a evitare il presunto rischio di una crisi del debito. Questo episodio si sta oggi ritirando nel passato, ma all’epoca è stato eccezionale e scioccante, e potrebbe anche troppo facilmente rivelarsi un precursore della politica del futuro prossimo.

Parliamo prima delle circostanze economiche del contesto. All’inizio del 2011, il tasso di disoccupazione degli Stati Uniti era ancora del 9%, e la disoccupazione di lungo periodo in particolare era a livelli straordinari, con oltre sei milioni di americani che erano rimasti senza lavoro per sei mesi o più. Era una cattiva situazione economica, ma le sue cause non erano un mistero. Lo scoppio della bolla immobiliare, e i successivi sforzi delle famiglie per ripagare i debiti, avevano comportato un crollo della domanda aggregata. Nonostante i tassi di interesse molto bassi rispetto agli standard storici, le imprese non erano disposte a investire abbastanza per recuperare il terreno perso a causa di questa ritirata delle famiglie.
I libri di testo di Economia offrono consigli molto chiari su che cosa fare in queste circostanze. Questo era esattamente il tipo di situazione in cui la spesa in deficit aiuta l’economia, fornendo la domanda non sostenuta dal settore privato. Sfortunatamente, il sostegno dato dall’American Recovery and Reinvestment Act – lo stimolo di Obama, inadeguato, ma che almeno aveva attenuato gli effetti del crollo – aveva raggiunto il suo picco a metà 2010 e stava per interrompersi bruscamente. Quindi l’ovvia mossa da  corso di Economia del primo anno sarebbe stata quella di mettere in atto un altro significativo ciclo di stimoli. In fin dei conti il governo federale era ancora in grado di indebitarsi a lungo termine, a tassi di interesse reali vicini allo zero.

In qualche modo, tuttavia, nel corso del 2010 si formò un generale consenso, nel mondo politico e sui media, sul fatto che, a fronte del 9% di disoccupazione, le due questioni più importanti fossero… la riduzione del deficit pubblico e la “riforma dei diritti”, cioè tagli alla sicurezza sociale e all’assistenza sanitaria. E quando dico consenso intendo proprio quello. Come ha osservato Ezra Klein , “le regole sulla neutralità del giornalista quando si parla di deficit non si applicano più”. Ha citato, come esempio, Mike Allen che chiede ad Alan Simpson e Erskine Bowles “se credevano che Obama avrebbe fatto ‘la cosa giusta’ sui diritti – con ‘la cosa giusta’ chiaramente intendendo ‘tagli’.”

Da dove proviene questo consenso? Per essere onesti, il pubblico non ha mai creduto nell’economia keynesiana; per quanto ne so io, la maggior parte degli elettori, se interrogati in merito, diranno sempre che il deficit pubblico dovrebbe essere ridotto. Nel novembre del 1936, proprio dopo la rielezione di Roosvelt, Gallup chiese agli elettori se la nuova amministrazione dovesse pareggiare il bilancio; Il 65 per cento rispose affermativamente, solo il 28 per cento disse di no.

Però gli elettori tendono ad attribuire una priorità di importanza relativamente bassa al deficit rispetto ai posti di lavoro e all’economia. E favoriscono in modo schiacciante una maggiore spesa per l’assistenza sanitaria e la sicurezza sociale.

I ricchi, però, sono diversi da tutti noi. Nel 2011 gli studiosi di Scienze politiche Benjamin Page, Larry Bartels e Jason Seawright sono riusciti a sondare un gruppo di individui facoltosi residenti nell’area di Chicago. Hanno trovato notevoli differenze tra le priorità politiche di questo gruppo e quelle del pubblico generale. Il deficit era in cima alla lista dei problemi che consideravano “molto importanti”, mentre un terzo del campione lo considerava il problema “più importante”. E benché gli intervistati avessero espresso preoccupazione anche per la disoccupazione e l’istruzione, “le hanno classificate con un notevole stacco al secondo e terzo posto tra le preoccupazioni dei ricchi americani”.

Quando poi si parlava di diritti, le preferenze politiche dei ricchi erano esattamente opposte a  quelle del pubblico in generale. Con ampi margini, gli elettori in generale volevano aumentare la spesa per l’assistenza sanitaria e la sicurezza sociale. Con margini quasi altrettanto ampi, i ricchi volevano ridurre la spesa per quegli stessi programmi.

Quindi, quale fu l’origine di quel consenso nelle convinzioni correnti emerso nel 2010-2011 – un consenso così travolgente che i giornalisti di punta abbandonarono la regola della neutralità e descrissero le politiche di austerità come l’ovvia “cosa giusta” da fare da parte dei politici? Quello che accadde, in sostanza, fu che l’establishment politico e mediatico interiorizzò le preferenze dei ricchissimi.

Ora, il 2011 è stato un esempio particolarmente drammatico di come questo accade, ma non è stato un caso unico. Nel loro recente libro “Billionaires and Stealth Politics” (“Miliardari e strategie invisibili”) Page, Seawright e Matthew Lacombe sottolineano gli effetti duraturi dell’influenza politica dei plutocrati nel dibattito sulla sicurezza sociale: “Nonostante il forte sostegno della maggior parte degli americani alla tutela ed espansione della sicurezza sociale, per esempio, l’intensa campagna decennale pro tagli o privatizzazioni alla sicurezza sociale, guidata dal miliardario Pete Peterson e dai suoi ricchi alleati, sembra avere contribuito a vanificare qualsiasi possibilità di ampliarla. Invece, gli Stati Uniti si sono ripetutamente avvicinati (anche sotto i presidenti democratici Clinton e Obama) a tagliare concretamente le prestazioni di sicurezza sociale come parte di un ‘grande patto’ bipartisan sul bilancio federale”.

Ed ecco il punto: anche se non vogliamo mitizzare la saggezza dell’uomo comune, non c’è assolutamente alcuna ragione per ritenere che le preferenze politiche dei ricchi siano basate su una comprensione superiore di come funziona il mondo. Al contrario, i ricchi erano ossessionati dal debito e disinteressati alla disoccupazione di massa in un periodo in cui il deficit non era un problema – era, in effetti, una parte della soluzione – mentre la disoccupazione lo era.

E la convinzione, diffusa tra i ricchi, che dovremmo alzare l’età della pensione si basa, letteralmente, sulla mancata comprensione di come vive l’altra metà (o, in realtà, non lo fa). Sì, l’aspettativa di vita all’età di 65 anni è aumentata, ma con prevalenza schiacciante per la parte superiore della distribuzione del reddito. Gli americani meno abbienti, che sono precisamente le persone che dipendono maggiormente dalla sicurezza sociale, hanno visto solo un piccolo aumento dell’aspettativa di vita, quindi non c’è un motivo per costringerli a lavorare più a lungo.

Su che cosa sono basate le preferenze dei ricchi? Non c’è bisogno di essere rudi marxisti per riconoscere un forte elemento di interesse di classe. La spinta verso l’austerità era chiaramente legata al desiderio di ridurre il livello di tassazione e trasferimento [di ricchezza], che in tutti i paesi avanzati, persino in America, rappresenta una forza significativa verso la redistribuzione dai ricchi ai cittadini con redditi più bassi.

Si possono capire i veri obiettivi dell’austerità in un paio di modi. In primo luogo, rispetto agli altri paesi avanzati gli Stati Uniti hanno tasse basse e una spesa sociale bassa, ma quasi tutta l’energia degli auto-proclamatisi guardiani oltranzisti del deficit è stata impiegata per richiedere una riduzione delle spese piuttosto che un aumento delle tasse. In secondo luogo, è sorprendente quanto è calato l’isterismo sul deficit cui siamo di fronte ora rispetto a sette anni fa. Eppure il deficit di bilancio con l’occupazione piena ora è all’incirca altrettanto grande, come percentuale  del PIL, di quanto era agli inizi del 2012, quando la disoccupazione era ancora superiore all’8 per cento. Ma questo deficit, sebbene molto meno giustificato da considerazioni macroeconomiche, è stato creato da tagli di tasse – e guarda un po’, i custodi oltranzisti del deficit sono abbastanza tranquilli.

Senza dubbio molti dei ricchi che esigono tagli di tasse per loro e tagli delle prestazioni sociali per gli altri riescono a convincersi che questo è nell’interesse di tutti. Generalmente si è bravi in questo tipo di autoinganno. Resta il fatto che i ricchi, in media, spingono verso politiche che li avvantaggiano, spesso anche quando queste danneggiano l’economia nel suo insieme. E la pura e semplice ricchezza dei ricchi è proprio ciò che consente loro di ottenere molto di ciò che vogliono.

Quindi, che cosa significa questo, guardando avanti? In primo luogo, che nel breve periodo, sia durante le elezioni del 2020 che dopo, sarà molto importante tenere sempre d’occhio sia i politici centristi che i media, e non lasciare che facciano un altro 2011, trattando le preferenze politiche dello 0,1% come “la cosa giusta” e non come, beh, quello che vuole una specifica, piccola classe di persone. C’è una lunga lista di provvedimenti da sempre sostenuti dai progressisti che i soliti noti cercheranno di far passare come idee pazze, che nessuna persona seria sosterrebbe, ad esempio:

– aliquota fiscale massima al 70%;

– tassa sulla ricchezza sui patrimoni molto grandi;

– assistenza universale per l’infanzia;

– spese in deficit per realizzare infrastrutture.

Non è necessario sostenere una o tutte queste strategie per riconoscere che sono tutto fuorché pazze. Sono, infatti, supportate dagli studi di alcuni dei maggiori esperti di economia al mondo. Qualsiasi giornalista o politico centrista che le tratti come politiche evidentemente irresponsabili sta ripetendo quanto avvenuto nel 2011, ovvero interiorizzando i pregiudizi dei ricchi e trattandoli come se fossero fatti assodati.

Ma benché la vigilanza possa attenuare il livello fino a cui i ricchi riescono a definire l’agenda politica, alla fine i grandi soldi troveranno un modo di farlo, a meno che non ci siano meno soldi in partenza. Quindi ridurre l’estrema concentrazione di reddito e ricchezza non è solo desiderabile per motivi sociali ed economici. È anche un passo necessario per avere un sistema politico più sano.

http://vocidallestero.it/2019/07/14/krugman-il-disturbo-da-ricchezza-eccessiva/

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