Se fosse ancora vivo, il 9 dicembre 2020 Carlo Azeglio Ciampi avrebbe compiuto 100 anni.
Ex governatore della Banca d’Italia, ex-presidente del consiglio ed ex-presidente della repubblica nonché fra i principali “padri dell’euro” con relativo cambio di paradigma economico.
Per ricordare chi era Ciampi e per quali interessi lavorava, andremo a rileggere l’estratto finale delle conclusioni del rapporto annuale sul 1980, pronunciate il 30 maggio 1981, consultabili sul sito della Banca d’Italia.
In questo discorso l’allora governatore enunciava i principi della “costituzione monetaria” da attuare negli anni a venire, fra i tasselli c’era anche il divorzio.
Buona lettura
IL TESTO DELLE “CONCLUSIONI”
Signori Partecipanti,
l’intento di esporre con completezza le recenti vicende economiche e di rendere conto dell’operato della Banca non avrà celato la tensione con la quale quelle vicende sono state vissute e la preoccupazione di fronte alle difficoltà della nostra economia, che gli accadimenti internazionali rendono più complesse.
1980, insieme con l’eredità positiva di una crescita degli investimenti sconosciuta da anni, e dei segni di un rinnovato impegno di imprenditori e lavoratori, ha lasciato una situazione grave per la moneta, bene di tutti, bene indispensabile all’esplicarsi dei legami economici e civili che ci congiungono in una società.
Non è più tollerabile un’inflazione, la cui componente di fondo continua a elevarsi e ci allontana dai paesi ai quali siamo uniti per storia e per cultura.
Un’inflazione da nove anni non inferiore al 10 per cento, da due intorno al 20, ha provocato non solo ingenti e ciechi trasferimenti di ricchezza e le inefficienze dovute all’incertezza e alla volatilità dei prezzi relativi; essa ha alterato l’essenza stessa della moneta, svuotandola in gran parte della sua funzione di riserva di valore, per lasciarle solo un’umiliata funzione di numerario e di mezzo di pagamento.
Una complessa economia di scambio non può vivere senza una misura di valore attendibile nel presente e per il futuro. Per sottrarsi all’inganno di una moneta che si corrode in modo rapido e imprevedibile, essa adotta quale proprio metro, attraverso una molteplicità di pratiche e di istituti, l’insieme stesso dei beni e dei servizi che produce. In tali condizioni anche i successi della manovra monetaria tradizionale rischiano di risolversi in episodi tattici che non evitano la sconfitta strategica rappresentata dal consolidamento dell’inflazione.
Quando questo processo è in corso da anni, non è con l’attrito di una liquidità scarsa o di un cambio non accomodante che si ripristina l’equilibrio monetario. Il ritorno a una moneta stabile richiede un vero cambiamento di costituzione monetaria, che coinvolge la funzione della banca centrale, le procedure per le decisioni di spesa pubblica e quelle per la distribuzione del reddito.
Prima condizione è che il potere della creazione della moneta si eserciti in completa autonomia dai centri in cui si decide la spesa. Vi fu un tempo in cui questa esigenza si pose rispetto al sistema produttivo e fu allora che si precisarono la natura pubblicistica delle banche centrali e la separazione fra banca e impresa. Oggi quella esigenza deve esser soddisfatta soprattutto nei confronti del settore pubblico, liberando la banca centrale da una condizione che permette ai disavanzi di cassa di sollecitare una larghezza di creazione di liquidità non coerente con gli obiettivi di crescita della moneta.
Ciò impone il riesame dei modi attraverso i quali, nel nostro ordinamento, l’istituto di emissione finanzia il Tesoro: lo scoperto del conto corrente di tesoreria, la pratica dell’acquisto residuale dei buoni ordinari alle aste, la sottoscrizione di altri titoli emessi dallo Stato. In particolare è urgente che cessi l’assunzione da parte della Banca d’Italia dei BOT non aggiudicati alle aste. (NDR – il divorzio fatto con Andreatta)
Ma in una società democratica, in rapido mutamento, dove forte è l’aspirazione a un più alto tenore di vita, intensa la dialettica sociale, ancor diffusi e profondi gli squilibri, le pressioni alla creazione di liquidità spingono la moneta quasi fatalmente oltre la soglia della stabilità se non si pongono difese nelle aree stesse in cui si forma la domanda.
Seconda condizione sono perciò regole di procedura che collochino le grandi decisioni di spesa nella prospettiva dell’equilibrio monetario. Un fondamentale principio di libertà economica e politica vieta di sottrarre il contenuto di quelle decisioni alle scelte delle famiglie, delle imprese, dell’intera collettività espressa nel Parlamento e nel Governo. E l’esistenza stessa della moneta, potere d’acquisto non finalizzato, è espressione di questa libertà. Ma la società deve organizzarsi per impedire che le decisioni di spesa si compiano facendo preda di quel patrimonio comune che è la stabilità monetaria. Per far ciò essa deve disciplinare i modi dello scegliere senza dettare alcun contenuto di scelta, così come altre norme stabiliscono i modi, e perciò stesso la possibilità, del muoversi senza comandare la meta.
Vi sono, certo, le decisioni individuali attraverso le quali il reddito si ripartisce fra risparmio e consumi, e questi si definiscono nella loro struttura. Lo strumento fiscale può dare a quelle scelte gli indirizzi necessari per iscriverle in un coerente quadro di compatibilità. Ma assai più che nei bilanci familiari, la rottura dell’equilibrio monetario si determina nelle decisioni di spesa del settore pubblico e in quelle di distribuzione del reddito all’interno dell’impresa. È là che la relazione tra impieghi e risorse si tende fino a fare dell’aumento dei prezzi e della svalutazione dei debiti un necessario perverso strumento di ricomposizione.
Alle decisioni di spesa pubblica bisogna dare regole che costringano al rispetto sostanziale dell’obbligo di copertura. Un tempo, la coerenza tra la spesa, prerogativa del sovrano, e i tributi, sopportati dal popolo, era assicurata dalla dialettica fra esecutivo e parlamento. Divenuto sovrano il popolo, il vincolo di bilancio ha operato a lungo secondo la regola rigida del pareggio. Il venir meno di questo vincolo ha condotto le finanze pubbliche a una situazione in cui l’equilibrio economico non ha altro ancoraggio che la capacità di autogoverno della collettività. L’articolo 81 della Costituzione ha inteso rafforzare questa garanzia, ma l’attuazione che ne è stata fatta si è mostrata troppo spesso incapace di impedire che la spesa, invece di esercitare una attenta funzione stabilizzatrice, si affrancasse dal vincolo della copertura. Occorre ricercare e definire solennemente forme, quali ad esempio l’obbligo del pareggio fra le entrate e le uscite correnti, con le quali dare concreta attuazione al principio enunciato nella Costituzione.
Metodi e riferimenti sono necessari anche nelle decisioni di spesa delle imprese. Un’economia di trasformazione, che importa materie prime ed esporta manufatti a prezzi internazionali, ha quale principale fattore di costo da governare il lavoro, nella duplice componente del salario e della produttività. Questo governo il nostro ordinamento lo affida alle parti sociali, attraverso il sistema della contrattazione.
Per l’importanza degli effetti economici e monetari, per la vastità degli interessi coinvolti, per gli istituti di rappresentanza e di delega che vi operano, la contrattazione collettiva, nazionale e aziendale, è un vero momento di politica economica, comparabile a quello attraverso il quale si definisce la spesa del settore pubblico, e bisognoso come quello di criteri che impediscano la deriva verso l’instabilità monetaria.
Al pari di ogni esplicazione della libertà di iniziativa economica, la libertà di contrattazione non può non patire il limite dell’interesse generale. Oggi i meccanismi stessi della negoziazione, la frammentazione in diversi livelli, la mancata accettazione di riferimenti macroeconomici che operino come vincolo di compatibilità generale, rendono oltremodo difficile alle parti sociali l’assunzione di decisioni che significhino a un tempo scelta di equa distribuzione del reddito e rispetto della stabilità monetaria. Occorre ricercare e definire forme istituzionali attraverso le quali la negoziazione collettiva ritorni a essere strumento di governo della dinamica dei redditi e della condizione del lavoro anziché di distruzione della moneta.
Sempre minore affidamento dovrà farsi su automatismi che sviliscono la capacità delle parti di far incontrare le proprie volontà e si rivelano insensibili ai mutamenti delle condizioni economiche e di quelle sociali. Nei momenti di maggiore accelerazione del moto inflazionistico si è creduto di trovare un surrogato della stabilità nel ricorso all’indicizzazione; è proprio il suo diffondersi che sanziona e consolida la rovina della moneta.
La stabilità monetaria è un bene troppo prezioso e troppo fragile perché il fronte che lo difende possa essere indebolito assicurando a individui o a gruppi il salvacondotto di una protezione automatica, soprattutto quando essa sia frequente e indifferente all’origine degli impulsi inflazionistici. (NDR – capito plebaglia? Il governatore non può pensare a voi!)
Nel paese della Comunità che più di ogni altro ha saputo, in questi anni, mantenere stabili i prezzi, è sancito il divieto esplicito di ogni forma di indicizzazione, non solo nei contratti collettivi, ma anche nella forma di clausole che in contratti individuali aggancino a un qualsiasi indice le obbligazioni pecuniarie delle parti. Nello stesso paese (NDR – Germania ovest) quella stabilità, affermata e difesa, si esprime anche nella facoltà di muovere liberamente la moneta oltre i confini.
Autonomia della banca centrale, rafforzamento delle procedure di bilancio, codice della contrattazione collettiva sono presupposti del ritorno a una moneta stabile.
Ormai da dieci anni, rescisso anche il legame indiretto all’oro attraverso la convertibilità del dollaro e la fissità dei cambi (NDR – la fine degli accordi di Bretton Woods), la lira, come le altre monete, è divenuta un bene ancor più immateriale e astratto, garantito nel suo valore da null’altro che dalla forza dell’economia e dalla capacità del corpo sociale di organizzarsi e di governare.
Uno statuto della moneta è indispensabile per la riconquista di un metro stabile di tutti i beni presenti e futuri e per garantirci dal rischio di ricadere verso assetti che non ci hanno aiutato a combattere l’inflazione, quando non l’hanno rafforzata.
Questi sono i problemi che la gravità e l’urgenza della situazione economica ci impongono di affrontare nella loro complessità e interezza. Il dibattito degli ultimi tempi indica che le scelte sono maturate negli animi e che già nell’immediato possono essere fatti passi concreti nelle direzioni indicate. Perché la sua efficacia non si disperda, quel dibattito deve tradursi oggi, urgentemente, in volontà di realizzazione. Più che affinamenti tecnici, occorre la capacità di liberarsi da pregiudizi, da diffidenze, da miope difesa di interessi particolari. E questa capacità ha la sua radice nella coscienza civile, ultimo insostituibile presidio di una moneta stabile così come di ogni altro ordinamento di una società libera e giusta.
DALLA COSTITUZIONE MONETARIA ALL’EURO
Un discorso semplicemente eversivo: lo Stato non deve avere la sovranità monetaria perché, a suo avviso, la userebbe male. Quindi è giusto che a gestirla sia un’oligarchia che non risponda a nessuno del proprio operato.
L’Autonomia della banca centrale e vincoli di bilancio sono i cardini dell’unione economica e monetaria e, sempre in nome di Maastricht, nel 92 abbiamo abolito pure la scala mobile.
Il sistema di indicizzazione, infatti, consentiva ai salari nominali di crescere più velocemente dei prezzi (tranne nel 1982) ma per Ciampi questo era un “surrogato della stabilità monetaria”.
Qual è la differenza fra la stabilità della moneta e il suo “surrogato”? Che la moneta è un bene “immateriale e astratto“, il lavoro che misura e dà valore alla moneta invece è un bene concretissimo da cui dipende la vita delle persone.
E per far parte della moneta unica, un sistema che lotta all’inflazione in assenza di inflazione, abbiamo dal 92 in poi svalutato e precarizzato il lavoro, per inseguire il feticcio della stabilità dei prezzi.
E sempre a proposito del 1992, come non ricordare la sua inutile difesa della lira nella banda stretta dello SME, giustificandosi dietro lo spauracchio dell’inflazione, che ha prodotto solo lo sprepero delle riserve in valuta estera.
Da segnalare che, in un paio di suoi discorsi da presidente della repubblica, Ciampi ammeteva pacificamente che l’euro fosse una cessione/rinuncia di sovranità, ed erano discorsi alla nazione a reti unificate!
Però dai, negli ultimi anni della sua vita si sarà pentito di qualcosa… Ma anche no! Infatti quel discorso del 1981, da cui siamo partiti, lo rivendicava in questa lettera del 2011 in occasione del 30° anniversario del divorzio Banca d’Italia-Tesoro.
Continuò ad essere un estremo difensore della moneta unica: alla vigilia del colpo di stato finanziario, il 29 ottobre 2011, ci ha regalato perle come “senza la moneta unica saremmo in guai ben più seri” in un’intervista al Sole 24 Ore.
Peccato che all’epoca l’unica area in crisi del pianeta fosse proprio l’eurozona, mentre il resto del mondo stava continuando a riprendersi dalla recessione globale del 2008.
Nel 2019 l’Italia vedeva ancora col binocolo il PIL reale del 2007, a malapena aveva recuperato i valori del 2011.
Alla fine della fiera, per “festeggiare” uno dei principali resposabili dell’attuale disastro economico, quello che c’era già prima del covid, ci sono due spiegazioni: o si appartiene a quell’1% che si è arricchito in questi anni di crisi, oppure si è semplimente tifosi ignoranti.
Tratto da:
https://canalesovranista.altervista.org/la-costituzione-monetaria-di-ciampi-discorso-del-1981/
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