Se abbiamo imparato qualcosa, negli ultimi anni, è che la discriminazione è brutta sporca e cattiva. Ce lo hanno insegnato – a suon di simboliche bacchettate sulle dita e di sberle metaforiche in bocca – un po’ tutti: i giornaloni, gli opinionisti, gli intellettuali e – soprattutto e prima di tutto – quell’affascinante carrozzone di illuminati definito come “sinistra progressista”: non bisogna discriminare, mai; lotta alla discriminazione di genere; chi discrimina, incita all’odio. E via andare, di luogo comune in luogo comune, di frase fatta in frase fatta, di parola d’ordine in parola d’ordine. Siamo stati talmente intossicati da questa vera e propria ideologia da rischiare di perdere, insieme al lume della ragione, anche il lume della discriminazione.
Perché il tema è questo: è proprio vero che la discriminazione fa (sempre) male e va (sempre) combattuta? Oppure no? E, ancora: non sarà che rifiutandoci categoricamente di “discriminare” chiunque e qualunque cosa, finiremo per smarrire la quintessenza stessa della nostra umanità, nel suo senso più nobile e alto? Dietro il partito dei “no-discriminax” ci sono (solo) buone intenzioni o anche (e specialmente) malcelati, e pessimi, obbiettivi? Per capirlo dobbiamo guardare sia al suo scopo dichiarato sia ai suoi effetti collaterali. Lo scopo dichiarato è, ovviamente, l’uguaglianza. E, da questo punto di vista, non ci sarebbe nulla da eccepire: non è giusto discriminare (nel senso di approcciare in modo differente) situazioni e soggetti meritevoli di pari trattamento, opportunità e tutele.
Per esempio, non va bene discriminare le donne rispetto agli uomini, i neri rispetto ai bianchi, i vecchi rispetto ai giovani. E fino a qua, siamo tutti d’accordo. Ma il partito dei “no-discriminax” va molto oltre; e non solo inventa letteralmente un numero infinito di categorie, inesistenti in natura, cui applicare il giusto concetto di non discriminazione, ma soprattutto dà ad intendere che la “discriminazione” in sé e per sé è un’azione immorale, illecita e criminale. E invece è vero il contrario. Perché il termine “discriminare” è un lemma ambiguo, dalla doppia faccia. Può indicare un iniquo discrimine tra classi di cose e di persone degne di ugual considerazione. Ma significa anche (anzi, in primis) “distinguere, differenziare, in base a dati oggettivi”.
È grazie a questa attitudine – in parte innata, in parte acquisita in virtù di una buona formazione – che siamo in grado di distinguere, “discriminandoli” appunto, il bene dal male, il giusto dall’ingiusto, il bello dal brutto, il vero dal falso, il ragionevole dall’irrazionale. Questa capacità di discriminare non solo è utile, è benedetta; perché rappresenta la cifra più autentica della nostra migliore “umanità”. Tra i grandi maestri del passato, in campo religioso, etico e persino estetico, abbiamo dei fenomenali discriminatori: da Gesù, con le sue parabole evangeliche, ad Aristotele con la sua “Etica Nicomachea”, agli scultori greci, o ai pittori rinascimentali, con il loro (discriminante) culto per la bellezza.
Ebbene, la mira finale di chi oggi strepita, a ogni passo, contro le discriminazioni di ogni tipo è proprio questa: farci dimenticare il lato luminoso della discriminazione per farci concentrare solo su quello oscuro. E sono già a buon punto, nella loro opera demolitrice. La presente civiltà è figlia anche della condanna a morte della nostra facoltà di discriminare. Proprio per questo può accadere il peggio senza che la maggioranza se ne accorga; terrorizzata com’è dalla paura di essere tacciata di discriminazione.
https://scenarieconomici.it/quando-discriminare-e-bello/
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